Una finestra sull’apocalisse | Intervista a Paolo Strippoli

Una finestra sull’apocalisse | Intervista a Paolo Strippoli

Al di là di noi cultori delle storie che scandagliano le pieghe più purulente della creatività, da sempre l’horror ha dovuto fare i conti con il suo essere una produzione di serie B, a basso costo, a massima resa e spesso sottovalutato. Al loro esordio, i registi che oggi sono considerati i padri del cinema dell’orrore contemporaneo hanno dovuto subire le steccate della critica, prima che la storia rendesse loro la giustizia che meritavano; neanche Shining riuscì a evitare la candidatura ai Razzie Awards come peggior regia. Tuttavia, da un po’ di tempo a questa parte, sembrerebbe che il cinebrivido si stia affrancando dal suo atavico fardello. Tra i nuovi autori del cinema horror italiano c’è Paolo Strippoli, già co-regista insieme a Roberto De Feo di A Classic Horror Story, che ha presentato quest’anno ad Alice nella Città (sezione autonoma della Festa del Cinema di Roma) Piove, horror urbano che mette in scena il dramma di una famiglia corrosa dalla rabbia e dai sensi di colpa in una Roma flagellata dalla pioggia e dalla violenza efferata.  

Inizialmente Piove – scritto da Jacopo Del Giudice e vincitore del premio Solinas nel 2017 – doveva essere girato da Gustavo Hernandez. Com’è stato lavorare a un progetto originariamente non tuo? Quanto lavoro di appropriazione c’è stato? 

Ho lavorato un mese effettivo alla revisione della sceneggiatura, che non è tanto, anzi. Non ero sicuro di voler fare il film, non perché non mi piacesse, ma perché già con A Classic Horror Story avevo ereditato la storia. In quell’occasione sono riuscito a fare mio il film nel corso di mesi. Per Piove sapevamo che saremmo dovuti andare sul set di lì a poco e avevo paura che non ci sarebbe stato il tempo per fare questo lavoro. Però su consiglio di Marina Marzotto, che è una produttrice intelligente che non si arrende, mi sono messo a lavoro. Rileggendo con Jacopo le precedenti 7 stesure ho capito la direzione da prendere: volevo riportare il focus dall’apocalisse a questa famiglia. Conoscevo Jacopo già da prima della lavorazione del film e con lui mi sono trovato molto bene: è uno sceneggiatore disponibile e molto bravo a capire cosa chiedi. Alla fine quel mese è bastato, mi ha fatto capire che io il film lo volevo fare, mi ero affezionato ai personaggi e avevo capito che avrei potuto parlare anche di quello che mi interessa. Il mio lavoro di appropriazione è stato molto istintivo, non pensato a tavolino: avevo l’istinto di voler parlare di questo padre e questo figlio e tutto il resto doveva essere spostato fuori dal fuoco. I personaggi dovevano essere molto più stilizzati rispetto a Enrico e Thomas, proprio affinché tutto il resto risultasse una finestra sul mondo, sull’apocalisse in corso. 

Quali sono state le ispirazioni per questo film? Si che te l’hanno già chiesto molte volte…

Infatti ormai sembro un disco rotto, però è vero, mentre scrivevo piove e mentre mi preparavo a girarlo ho riscoperto il j-horror, in particolare Kyoshi Kurosawa con il suo Kairo (2001), rispettivamente il mio regista e il mio film di elezione. È un genere che parla spesso di presenze ultraterrene, di fantasmi, senza intraprendere la strada dello spavento facile, anzi; sono film estremamente duri a livello emotivo, nichilisti, aprono un baratro nello spettatore. Volevo portare in Piove l’esperienza intima di quel cinema: il mio non è un ghost movie, anche se l’ho trattato un po’ come tale per la presenza di ricordi che diventano fantasmi. A livello estetico, invece, sono molto influenzato dai nuovi registi dell’horror arthouse americano come Ari Aster, Robert Eggers, e, come ripeto sempre, anche Veronica Franz e Severin Fiala – austriaci – con i loro modo di fare cinema molto interessante, con film come Goodnight Mommy (2022) e The Lodge (2019).

Parlando di rimandi al passato, all’inizio di Piove ci sono immagini legate alla storia e alla violenza quasi proverbiale della Capitale. Penso in tal senso al mito della sua fondazione, quello di Romolo e Remo. Per te esiste una sorta di spirito dei luoghi, un’energia che influisce sulle persone che li abitano?

Assolutamente sì. La risposta è sì, senza voler sembrare troppo new age. Il film parla un po’ di questo, della spazzatura emotiva che lasciamo in determinati posti. Infatti tutti noi siamo colpevoli di insozzare i luoghi in cui viviamo, possiamo ripulirli o lasciarli sani, proprio come succede con la spazzatura materiale. Il nostro sentire e i nostri comportamenti lasciano un segno anche nei luoghi. Non so se si può parlare di uno spirito vero e proprio, però sicuramente quello che lasciamo resta. Per i titoli di testa ho fatto riferimento a eventi storici precisi che ci hanno ispirato, e li abbiamo riportati in maniera molto fumettistica e semplice nei quadri iniziali. Roma è una città arrabbiata e insofferente. Forse dovremmo interrogarci su come si può spezzare questo circolo, su come si può ripulire i luoghi dai sentimenti e dagli impulsi che noi abbiamo lasciato nel corso del tempo. 

Piove non mostra soltanto la rabbia ristagnata, ma il suo esplodere senza filtri, impulsiva e sanguigna, proprio come succede a Romolo. Enrico, nel suo monologo, dichiara di non voler essere parte della falsità sociale. Mi ha ricordato Cioran, un passo di Sommario di decomposizione, riconosce la bugia della sovrastruttura sociale, le denuncia, ma ne riconosce al tempo stesso la funzione fondamentale della civiltà, in quanto sineddoche della ragione.

C’è assolutamente, e ti dico anche un’altra cosa. Quel monologo arriva da un’idea che volevamo portare nel film, ovvero che la società con le sue regole ti accetta solo se sei sano ed emotivamente intero; se sei rotto, se hai un vuoto non puoi farne parte, è impossibile. Enrico c’è stato da ragazzino, quando lui e la sua famiglia erano integri. Ora è uscito fuori da quella che lui chiama gabbia, ma persiste la tensione verso quella gabbia, c’è ancora una voglia di starvi dentro. Quando dice «sei ingabbiato» prova invidia: alla fine tutti vogliamo essere parte di una comunità.

Enrico ormai comunica solo con il mondo virtuale attraverso il telefonino, privo di un reale rapporto umano. Con questo film racconti una dimensione universale collocata in un contesto preciso e concreto, ovvero lo sfilacciamento sociale contemporaneo.   

Lo faccio senza pensarci troppo. Per me si può parlare di qualcosa di universale in maniera efficace solo se viene filtrato attraverso gli strumenti e i dispositivi di oggi. Se non avesse quel rapporto così stretto col telefonino, al tempo stesso scudo, arma e unico mezzo di comunicazione con l’esterno, allora non utilizzerebbe nient’altro. È stato molto naturale, non c’è stato un vero pensiero dietro. È l’unica soluzione possibile oggi, l’unico strumento che ti permette di comunicare senza farlo veramente. 

Mentre guardavo il film, ignaro di quando fosse stato effettivamente ideato, ho pensato alla società post pandemica.

Vedi, Roma è incattivita da prima della pandemia. La pandemia ha peggiorato tutto, come è successo ovunque. Ha creato dei divari, ha fortificato l’idea delle classi sociali, ce lo siamo raccontati che ne saremmo usciti migliori ma non è mai stato possibile, era una cazzata. Quindi, è vero che risuona un po’ con quello che il mondo è diventato, ma era già una strada intrapresa da tanto tempo. Quando mi dicono che il film sembra pensato post pandemia dico di sì, ma non è che è una scusa questa roba della pandemia? La pandemia è stato un acceleratore che ci ha reso artisticamente più consapevoli di quello che siamo, pur rendendoci peggiori.

Alcuni hanno visto nel flashback delle battute finali una stortura. Personalmente l’ho apprezzato, è stato un momento di ripresa dopo momenti di tensione costante. Come mai arriva così all’improvviso proprio alla fine? 

Il flashback era lì anche in scrittura. Con Marco Spoletini, il montatore, abbiamo provato ad anticiparlo, ben consapevoli che sarebbe arrivato sulla punta del climax, interrompendo la tensione e rimandando il terzo atto di una quindicina di minuti. Ci siamo domandati se lo spettatore si sarebbe incazzato e qualcuno effettivamente lo ha fatto. Ma non abbiamo avuto dubbi sul lasciarlo lì dov’era in origine, perché era l’unico modo per restituire allo spettatore il sentimento del tragico: senza quelle due immagini così ravvicinate, la fine del flashback e l’inizio dello showdown, sarebbe stato solo drammatico. Sarebbe stato tutto un altro modo di percepire il film che noi non volevamo. Per noi quel flashback poteva stare solo lì ed è una delle scelte di cui sono più felice.

Mi sembra che l’horror italiano stia rinascendo.

Speriamo ma non so se sta rinascendo. Lo dico ogni volta: per rinascere si dovrebbero fare più film. Sogno un tempo in cui ci saranno cinque, sei film horror italiani all’anno.

Io sono più positivo: credo che ci sia un momento di rinascita, un nuovo modo di fare horror, anche nel panorama italiano. Tu ne sei un esempio. Sembra che stia cadendo il pregiudizio che l’horror ha sempre avuto. Alcuni film horror vengono da subito riconosciuti dalla critica; alcuni festival prestigiosi e generalisti invece si stanno aprendo a questo genere. Penso a The Nest di Roberto De Feo, con cui tu per altro hai collaborato in A Classic Horror Story, che è andato a Locarno. 

A Locarno fuori concorso. Ma perché un horror non può stare in una sezione competitiva? Apprezzo Torino, che aveva una sezione non competitiva di film di genere che ora è diventata competitiva, Crazies. Sono felice che Alice nella città abbia messo Piove in una sezione competitiva invece che in un evento speciale. Tuttavia una stigma c’è ancora, nel senso che è difficile chiedere a una giuria di valutare uno accanto all’altro film fantastici e altri più attaccati al reale. Però è una cosa che invece può funzionare, non dobbiamo sottovalutare sia lo spettatore che il membro di una giuria. Penso alla vicenda di Joker di Todd Phillips, vincitore del Leone d’oro nel 2019: invece che per il fuori concorso, per errore il regista è stato invitato per il concorso, ma non hanno avuto il cuore di ritrattare. Alla fine è stata una vittoria anche politica di un’opera di genere che può competere, rompendo la barriera tra film d’autore e film di genere dietro cui ogni tanto ci nascondiamo. Spero che queste cose non accadano più per caso e soprattutto che riguardino anche produzioni più piccole, che non abbiano alle spalle una major, senza che i festival li mettano un po’ ai margini delle selezioni. In questo senso lo stigma c’è ancora: c’è chi ha la vita più facile e chi meno. Secondo me sul genere c’è ancora del sospetto. E anche tra chi lo ama, c’è chi si chiede: può essere un processo lineare quello di farlo giudicare accanto a film così diversi? Secondo me sì e io voglio condividere la tua positività, mi fa piacere. Speriamo che tra qualche anno potremmo tutti essere felici di questo.

A volte anche casi fortuiti e non voluti possono segnare dei momenti significativi. Speriamo di poter vedere più horror al cinema. A proposito di sala, si parla tantissimo della sua morte, come se in queste sale ci fosse ormai puzza di cadavere. Qual è stata la tua esperienza distributiva del film, anche riguardo alla censura del film ai minorenni? 

La censura esiste solo in sala ormai, poiché su una piattaforma diventa consiglio. Netflix ti da grande sicurezza quando realizzi il film: sai  già quando e dove uscirà – sulla piattaforma. Manca la tensione che segue la realizzazione di un film, la fatidica domanda: “E adesso che succede?” Con Piove è successo così, con l’apprensione di riuscire a trovare una distribuzione capace di valorizzarlo per quello che è, cioè rispettando due generi in cui si cala: non essendo un horror puro va venduto in una certa maniera. Alla fine è uscito oltre un anno dopo le riprese. Anche se nel frattempo mi sento diverso, vederlo in sala mi da una grande sensazione di completezza e lo spettatore in sala lo ha visto – o lo vedrà – esattamente come l’ho chiuso. Poi sono innamorato della sala e i film in sala sono sempre un regalo. Sulle piattaforme è diverso, mi permettono di essere un grande divoratore di film e contenuti, e come dicevo Netflix mi ha permesso di fare il primo film con una grande tranquillità. Ma personalmente l’esperienza più bella di visione filmica sarà sempre la sala. È il posto dove bisogna vedere il cinema perché è una visione più completa, un’esperienza condivisa… Prima parlavamo di luoghi che assorbono e la sala assorbe i sentimenti e le emozioni di tutti i presenti. È qualcosa di concreto, non sono stronzate new age. La sala è una cassa di risonanza che ci fa arrivare le immagini in maniera amplificata. Spero che la sala resista, che continui a sopravvivere finché non accadrà qualcosa che riporterà veramente la gente al cinema.

Dario Argento ha da poco dichiarato che ha paura del buio. Di cosa hai paura? Di cosa ha paura un regista di film horror?

Di tutto. [Ride] Se fai horror sei la persona più predisposta a spaventarti. Io ho innumerevoli paure, una è di perdere il controllo. Non è così difficile, c’è un intero mondo di malattie, situazioni che diventano malattie, che possono toglierti il controllo. Forse la mia paura più grande è proprio quella di perdermi.  

Quali sono i film che più ti sono piaciuti tra le produzioni più recenti?
A proposito di Netflix, ho amato tantissimo A Marriage Story (2019) di Noah Baumbach, mi ha distrutto. Uno dei film più importanti per me degli ultimi vent’anni è Lasciami entrare (2008) di Tomas Alfredson, così esatto nella sua metafora del passaggio all’età adulta, capace di arrivare allo spettatore incondizionatamente, pur essendo un film non facile. È veramente un piccolo gioiello che cito molto spesso, anche in Piove: a un certo punto una mano accarezza la bambina ma non si sa da dove arriva, potrebbe essere quella del padre o del fratello ma no, perché non sono nella posizione giusta, quindi forse la mano della madre, chi lo sa. Stacco su  loro con tutta la melma nel garage e la mano non c’è più. Quella è una citazione abbastanza diretta di Lasciami entrare, la meravigliosa scena della piscina in cui i protagonisti Oskar ed Eli si guardano; primissimi piani dei loro sguardi. Stacco, campo medio della piscina, ma loro due non ci sono più, eppure in continuità visiva e sonora. È forse una delle scene meglio decoupate della storia del cinema. Un capolavoro.

Alessio Chiappi