Raccontare storie & rompere le regole | Intervista ad Aldo Giannotti

Raccontare storie & rompere le regole | Intervista ad Aldo Giannotti

Lo scorso ventotto ottobre, in un paese di sei anime a trecentocinquanta metri sul livello del mare, veniva inaugurato il progetto di Aldo Giannotti nell’ambito di Prospettive. Fare Parte, la rete di residenze d’artista di Adiacenze sotto la curatela di Amerigo Mariotti e Giorgia Tronconi che si muove all’interno dello spazio di diversi comuni dell’Emilia-Romagna.

Vigoleno – Legend has it è il titolo di una riflessione sul processo di costruzione della Storia, in cui, partendo dalle leggende del borgo, viene data vita a una performance che ha l’obiettivo di promuovere la ricerca sull’arte contemporanea e valorizzare il territorio. L’idea è di dare la possibilità ai visitatori di compiere un esercizio di autoconsapevolezza: all’interno della storia ci sono i deboli e i potenti, gli oppressi e gli oppressori, i ricchi e i poveri, i conservatori e i rivoluzionari. Ognuno di noi, nel suo intimo, in quale ruolo, in quali ideali si riconosce? Tramite un esercizio stilistico che riprende la commedia dell’arte, il lavoro di Giannotti rivede una delle modalità consuete con cui ci relazioniamo ai luoghi e già dal principio, in quella che è a tutti gli effetti una visita turistica, gli ospiti si trovano immersi in un continuo stato di esitazione che scandisce con leggerezza temi piuttosto importanti. I performers si immedesimano nel ruolo delle guide; seguono un canovaccio a cui accompagnano formule tra l’assurdo e il comico, generando una persistente apnea nel non sapere cosa è vero e cosa falso delle parole che ascoltiamo. Il tour del castello si conclude in quello che dicono essere il più piccolo teatro al mondo e sulle cui pareti troviamo un affresco del tempo raffigurante Arlecchino: personaggio goldoniano che per eccellenza intreccia la storia all’inverosimile.

Aldo Giannotti vive e lavora a Vienna. Artista multidisciplinare, già Austrian Graphic Art Award, Kunsthalle Innsbruck (2019) e Leone D’Oro alla Biennale di Venezia per la miglior performance (2007), insieme ai premi di riconoscimento Pollock-Krasner Foundation (2020) e STRABAG Artaward International Kunstforum (2016). Dopo un percorso in fotografia all’Academy of Fine Arts London e all’Akademie der Bildenden Künste München, si diploma in pittura all’Accademia di Belle Arti di Carrara.

Dopo l’esibizione, su uno dei sofà sopra cui si sono seduti anche Gabriele D’Annunzio, Max Ernst e Anna Pavlova, abbiamo chiacchierato per ventitré minuti.

Come è nata la collaborazione con Adiacenze e cosa significa per te fare parte di una rete di residenze d’artista tutta italiana?

Sono stato loro ospite e ricordo che la conversazione è andata avanti fino a tarda notte sin dalla prima volta in cui ci siamo incontrati, così è scattato il colpo di fulmine. Conoscevo già la realtà bolognese ma era da tempo che non collaboravo con un’associazione culturale che rendesse tutto così semplice. Secondo il mio parere l’infrastruttura del museo possiede la potenzialità di ribaltare dal basso verso l’alto tutte le regole ma riuscire ad agire in questo senso è sempre uno scontro con le istituzioni. Ti ricordi anche al MAMbo, no? Rimettere – staccare – riattaccare – montare porte, e Lorenzo (si riferisce a L. Balbi, curatore della personale Safe and Sound, 2021, ndr) mi aveva dato ogni possibilità, poi entri in contrasto con la burocrazia ed è una battaglia contro i mulini a vento, che se riesci a vincere produci davvero una dichiarazione d’intenti.

Con Adiacenze ci siamo trovati sulla stessa lunghezza d’onda: loro seguivano già il mio lavoro e insieme abbiamo riscontrato di avere la stessa visione sul mondo dell’arte e dell’impianto artistico. Io, d’altro canto, capivo bene la loro posizione e con quali budget dovevano lavorare; appena trasferito a Vienna ho gestito per sei/sette anni uno spazio artistico molto simile a questo. Sapere che Amerigo e Giorgia mettevano fiducia nella mia proposta affidandomi una certa libertà sul progetto ha fatto in modo che si creasse una sinergia che tutt’oggi parla quasi da sola.

Non fatico a comprendere come mai la scelta è caduta proprio su di te: i tuoi lavori superano da sempre le convenzioni e le regole della forma museale.

Per contraddizione gran parte del mio lavoro si sviluppa all’interno dei musei, cerco però di misurarmi sempre nel pensare a una drammaturgia che dialoghi con lo spazio architettonico, sociale, narrativo, teorico dell’infrastruttura preesistente. Il luogo dove vengo accolto – che sia uno spazio pubblico, un museo, un borgo – automaticamente forza il mio personale principio di relazione: ne studio la storia e penso a come la mia opera possa interagire quasi come site-specific all’interno delle logiche dello spazio circostante e con la comunità che inabita la realtà… e questo sì che è un lavorone. Devi sempre reinventarti, devi sempre relazionarti, però è la cosa che più mi piace fare.

Prima di essere un artista visivo sono una persona a cui piace “relazionarsi con”, capire il contesto che lo circonda e creare dei sistemi in cui poi diventare non solo l’artista ma principalmente il contemplatore delle possibilità a cui è possibile dare origine, un visitatore, come lo è il mio pubblico. Io costruisco semplicemente la circostanza, poi lascio libero sfogo alla condizione del reale.

In questa che è a tutti gli effetti una rappresentazione teatrale avete riletto e riscritto l’ambiente e i suoi ricordi per creare un livello di straniamento. Come si è svolta la ricerca artistica?

Qui a Vigoleno la prima cosa che ho fatto è stata capire chi abitasse il borgo, e quando ho scoperto essere davvero sei persone (che nemmeno si parlano) ho deciso che il fulcro sarebbe stato il visitatore temporaneo, il turista, così sono nate le visite guidate.

Volevo realizzare un progetto partecipativo: dopo quattro mesi di studio sullo spazio che mi aspettava, ho rintracciato gli attori con cui volevo lavorare (I. Bernardi, E. De Robertis, A. Pellecchia e T. Pioli, già presenti al MAMbo e The Museum Score presso l’OOK Linz, 2021, ndr), le guide turistiche locali (C. Arcagni, V. Fontanive, E. Gennari, ndr) e ci siamo ritrovati qui, dove per quattro giorni e a quattro mani abbiamo composto tutto l’impianto narrativo. E anche con loro è stata una passeggiata dar vita al potere evocativo della guida; rimanere in bilico tra il drammatico e il “possibile vero” attraverso un sistema di intersezioni mirato a creare gradazioni ascendenti e discendenti una subito dopo l’altra, al contempo poi riuscire a mantenere alta la soglia di attenzione dello spettatore, che fatica a capire il confine tra finzione e verità.

L’aspetto importante del lavoro è appunto questo ribaltamento degli eventi storici ma non per puro divertimento. Quando percepiamo un avvenimento è qualcosa che accettiamo nel contemporaneo; invece, io vedo la storia come in costante flessibilità. Dipende da come ti viene raccontata, da quali fonti, e intanto da secoli giungono a noi questi miti, così ho pensato: invece di accumulare solo le leggende del passato, perché non iniziare da oggi a crearne ex novo e lanciarle nel futuro? Magari dopo duecento anni le persone faranno i giri della piazza qui di sotto o racconteranno la realtà dei partigiani di Vigoleno. Perché non fare della mia performance un elemento elastico, persistente, che condiziona il racconto con fattori altri?

E cosa è una storia? Per chi raccontiamo?

A livello di percezione del sé, per sentirsi parte di un qualcosa – che è nient’altro che il ricordo stesso – l’uomo ha bisogno di essere ancorato ad alcuni fatti e ogni fatto che esce dal nostro percorso personale si basa su cambiamenti, su evoluzioni, si basa su alberi genealogici. La nostra identità è costituita da un punto in una linea che ci precede, come noi saremo un punto sulla linea di quelli che verranno dopo di noi. Raccontare storie, insieme al disegnare sulle pareti – cosa che io ancora faccio – è il rito ancestrale più riprodotto e durevole dell’umanità, che si trasla nella necessità di tramandare, ma ancor prima in quello di immaginare, portare i pensieri fuori dalla nostra testa e condividerli con l’altro. La narrazione ha il potenziale di lasciare qualcosa di sé alle nuove generazioni.

Parliamo allora dell’immagine come forma immediata di comunicazione. Come metti te stesso in quello che disegni?

Negli anni ho capito che il disegno per me è sempre stato una forma parallela di comunicare, delle volte mi risulta anzi più semplice rispetto al trovare le parole. Nel mio quotidiano mi aiuta a semplificare le idee e i ragionamenti complessi, mentre nel momento in cui voglio lavorare con semplicità mi dà accesso a un pubblico molto vicino a quello che desidero. Nel disegno c’è la formula più comune che esista, ovvero: tutti abbiamo disegnato, tutti sappiamo disegnare qualcosa. Una volta io ero un disegnatore fortemente barocco, ero bravo a disegnare, e ho trascorso la maggior parte della mia vita nello sforzo inverso di non usare quell’abilità, esemplificando per trovare un bilanciamento perfetto tra quello che volevo dire e il modo più facile per comunicarlo.

Ad oggi mi rapporto con la complessità provando a rendere il più lineare possibile tematiche intricate, in modo da raggiungere un’audience più grande e variegata che non sia solo quella dell’arte contemporanea. Spero che una buona parte delle persone che seguono il mio lavoro non venga dal mondo dell’arte ma che anzi siano persone che capiscono cosa sto facendo e magari le si avvicinino grazie al mio dispositivo.

Perciò, se dovessi indicare un tratto identificativo della tua arte quale sceglieresti?

Rompere gli schemi preorganizzati. Come dicevo prima, relazionandomi sempre con l’ambiente per me lo spazio è importantissimo, soprattutto come lo spazio viene occupato dalle persone. L’inclusione è una conseguenza. Come le persone possono cambiare lo spazio che ci circonda, ma anche in senso negativo, invece, come lo spazio che ci circonda ci obbliga a essere quello che siamo. In questo confronto c’è questa energia che spero sempre sia stimolante, e dimostri che l’arte esercita realmente una messa in discussione per fare quel passo in più che non facciamo mai solo perché abbiamo paura dell’altro.

Tutte le arti possiedono intrinseco un sistema complesso che più si conosce più si riesce ad afferrare, per me è interessante non essere all’ultimo scalino di un percorso, molto invece la possibilità di costruire uno scalino a cui tutti possono accedere. Quello che mi manca nella rappresentazione che il sistema dà dell’arte contemporanea è questa richiesta di fare il primo passo: la gente sta lontano dal museo perché ha paura, si sente stupida, questa però è anche colpa nostra. Noi artisti abbiamo creato questa distanza tra la maggioranza delle persone e il mondo dell’arte; quindi, la semplificazione dei contenuti è per me una ricerca continua di inclusività dove ricevere e dare supporto per salire questa scalinata.

Mi permetto di rilanciarti la stessa domanda posta dal tuo progetto: in quale ruolo, in quali ideali si riconosce Aldo Giannotti?

*Parolàccia* a questa è difficile rispondere in così poco tempo!

Dai, tu lo hai chiesto al tuo pubblico e io lo chiedo a te!

Forse un po’ ti ho già risposto. Ancor prima di riconoscermi nella mia professione di artista mi vedo come una persona per cui è necessaria la realizzazione di una collettività. Quello che faccio è proprio tentare di creare una tipologia di arte in cui sia presente un’ispirazione, prima di tutto per me, poi per trasferirla alle persone nell’invito a partecipare. E si può fare senza dover mettere in primo piano lo stemma dell’arte. Non trovo l’esigenza di incasellare, quanto la responsabilità con il mio lavoro di suscitare in chi lo guarda, o lo vive, o lo ascolta, la voglia di riflettere e mettersi in discussione. Penso che il mio ruolo sia questo. Capovolgere le regole, ribaltare i preconcetti e far percepire anche agli altri questa forza che si crea, anche solo per un momento.

La mia intenzione è quella di generare il bisogno di un luogo dove essere più presenti e consapevoli, liberarsi quanto basta per affacciarsi all’immaginazione… o anche alla resistenza (sorride, ndr).

Alessia Vitalone

Foto di Michele Amaglio, courtesy Adiacenze

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Non perdete le altre visite guidate Vigoleno – Legend has it che continuano con le seguenti date alle 16:30 e alle 17:30:

11-12 novembre / 18-19 novembre / 25-26 novembre 

Si consiglia la prenotazione al numero +39 3297503774 / info@adiacenze.it