Guardare una rosa fino a polverizzarsi gli occhi | La ribellione di Alejandra Pizarnik

Guardare una rosa fino a polverizzarsi gli occhi | La ribellione di Alejandra Pizarnik

Considerata l’ultima scrittrice maledetta del secolo scorso e una delle voci femminili più intense del Novecento argentino, Alejandra Pizarnik siede nell’olimpo dei poeti sudamericani tra gli esuli e i suicidi, lasciando come eredità poetica una tormentata indagine sul mistero della memoria e dell’assenza.

Non fu solo la vita sregolata dell’autrice, o la sua inclinazione agli abusi, che le valse la nomea di maudite. Da alcuni chiamata la Rimbaud argentina, Alejandra viene accostata ai poeti francesi dell’Ottocento per via del suo stile carico di simbolismo e del ruolo primario dell’intuizione nel processo interpretativo.  Questa operazione non può non passare attraverso una rivoluzione del linguaggio, che se per Baudelaire fu spogliare la bellezza del romantico candore per accostarle una dolorosa malinconia, per Alejandra Pizarnik fu la rosa da dipingere come un’arma micidiale e crudele.

Le parole alejandrine sono emblemi, sogni e allusioni. L’esistenza tormentata della poeta sembra manifestarsi in un eterno tentativo di afferrarle e dominare la loro infinita varietà di richiami, di capire il linguaggio e se possibile raggiungere anche la stessa condizione di astrazione totale dalla vita.   

A cinquant’anni dalla sua morte (Buenos Aires, 1972), viene pubblicato in Italia La figlia dell’insonnia a cura di Claudio Cinti per Crocetti Editore, che per la prima volta nel nostro paese raccoglie le traduzioni di alcuni dei testi più significativi dell’autrice. Sono poi inclusi un Prologo di Enrique Molina, che uscì con le ri-edizioni de La ultima inociencia y Las aventuras perdidas nel 1976, la prefazione di Octavio Paz a L’Albero di Diana (1962), e una lettera di Julio Cortazar a Pizarnik del 1966.

Attraverso la biografia dell’autrice e alcuni estratti della sua opera, vogliamo portare alla luce il ritratto di una donna che ha vissuto con il preciso intento di decodificare il linguaggio, al fine di cogliere la purezza di una verità poetica celata nei luoghi più remoti e nei più lontani significati. La sua è un’esistenza dedicata alle parole e alla celebrazione del loro potere ermetico. 

L’opera lasciata postuma dall’autrice raccoglie poesie, prosa, disegni e più di mille pagine di diari che ci aprono spiragli sul dialogo più autentico della poeta con sé stessa. Pizarnik vivrà tutta la sua (breve) vita nella vertigine, che nasce nei ricordi perduti dell’infanzia e in un perturbante impulso di morte. Quello che arriva fino a noi è l’eco di uno spavento continuo, di un abbaglio quasi perenne che non le diede mai pace.

L’infanzia in Argentina

Alejandra Pizarnik nasce con il nome di Flora il 29 Aprile 1936 ad Avallaneda, presso Buenos Aires. Seconda figlia di Elìas e Rosa Pozharnik, due emigrati ebrei di origine russa, ricorda l’infanzia come un periodo infelice, ma a cui farà sempre riferimento con un’amara nostalgia, definendola “un vecchio sacco di juta svuotato del carbone, nel quale ci sono giocattoli rotti, che non ricordo” ( Diarios, 6 novembre, 1962). 

Pizarnik procede per la prima parte della sua vita in maniera disorientata, come una bimba che gioca a mosca cieca, con i palmi delle mani aperte in avanti che brancolano nel buio. All’età di diciannove anni, tre atti scandiscono la sua ri-nascita poetica: il cambiamento del nome da Flora ad Alejandra, l’iscrizione alla facoltà di lettere e filosofia dell’università di Buenos Aires e la pubblicazione del suo primo libro di poesie, La tierra màs ajena (1955). 

Con l’urgenza di una recisione totale con le proprie radici, nel 1960 compie un ultimo atto identitario, e si imbarca su un transatlantico per un autoimposto esilio letterario. Lei pellegrina, lei straniera: questi appellativi che ricorrono nelle sue poesie, le servono a ricalcare un’immagine di una sé sdoppiata, ma anche a richiamare il dolore sempre latente dell’esilio. D’altronde, lei stessa individuerà i tre presupposti essenziali per un’arte duratura nella povertà, nelle passeggiate notturne e nel dolore. 

Alla ricerca di questa condizione, Pizarnik raggiunge Parigi, al tempo luogo ricco di riferimenti letterari, universo caleidoscopico e sovversivo di artisti devoti al rovesciamento dell’ordine razionale in virtù del sogno, e nuovo rifugio degli esuli sudamericani. 

L’esilio a Parigi

Dopo una serie di frenetici spostamenti, Alejandra Pizarnik si ricava il suo spazio creativo da una vecchia mansarda, al quarto piano di un palazzo di fronte alla chiesa di Saint-Sulpice, nel VI arrondissement. Questo diventerà il tempio della sua poesia, descritto dalla sua amica Ivonne Bordelois come un “luogo disordinato, riempito di carte, libri e una pesante aria di tabacco”.

Il periodo parigino sarà prolifico sia a livello creativo che sociale. In questi anni Pizarnik frequenterà i surrealisti Max Ernst, Jean Arp e Georges Bataille, e stringerà rapporti con altri compatrioti come Octavio Paz e Julio Cortazar, di cui diventerà amante e musa. In questo periodo pubblica la raccolta l’Arbol de Diana (1962) delineata nella prefazione dall’amico Octavio Paz come un’opera iridescente, al contempo fenomeno fisico, chimico, botanico, poi mitologico e mistico, l’altare di una sacerdotessa visionaria. 

Parigi sarà fondamentale per formulare la sua poetica, così come per riconoscere una natura sregolata e incline alle dipendenze. Nelle pagine di un suo diario, un giorno del 1962, Alejandra Pizarnik riconosce a sé stessa l’urgenza di dover vivere uno stato di perenne inebriamento indotto da qualsiasi sostanza: 

solo dopo aver bevuto dieci tazze di caffè e ingoiato varie pillole “rivitalizzanti cerebrali” posso respirare liberamente, vagare per le strade senza sentire l’impellente desiderio di uccidermi” (Diarios, 12 agosto, 1962).

Il ritorno a Buenos Aires

Il ritorno di Alejandra Pizarnik a Buenos Aires coincide con una discesa negli abissi e un’immersione totale nelle sue ossessioni. Con un linguaggio dai perimetri ormai ben definiti, Pizarnik esplora il silenzio, la notte, il corpo, la follia, la morte. Un decennio di abbandono al tormento, aggravato dalla morte improvvisa del padre nel 1967 e dalle conseguenti crisi che la avvicineranno sempre di più all’abuso di alcol e pillole. 

Questi sono gli anni di Los trabajos y las noches (1965), Extracciòn de la piedra de locura (1968) e El infierno musical (1971). Dopo la sua ultima pubblicazione, la notte tra il 24 e 25 settembre del 1972, all’età di trentasei anni, Alejandra Pizarnik ingerisce una cinquantina di pillole sedativo-ipnotiche e compie l’atto definitivo del suicidio. 

Le prime poesie

La Figlia dell’Insonnia si apre con alcuni estratti di La ultima inociencia (1956) e Las aventuras perdidas (1958), opere appena precedenti al periodo francese.

Poema para Emily Dickinson è un omaggio a colei che fu per molte voci femminili come una madre. Ogni poeta che sia donna ha probabilmente pensato molto intensamente ad Emily Dickinson, alla sua stanza e al suo baule, dove vennero ritrovate tutte le sue poesie. Con questo tributo Alejandra Pizarnik sembra voler dichiarare un’empatia profonda con la poeta americana e la sua solitudine:

Dall’altro lato della notte
l’attende il suo nome
la sua ansia surrettizia di vivere
dall’altro lato della notte!
Qualcosa piange nell’aria,
i suoni disegnano l’alba.
Lei pensa all’eternità.

Ne Las aventuras perdidas, l’infanzia appare come ricordo nostalgico e luminoso, “una mano che mi trascina sull’altra mia sponda”, una terra di mezzo dove la poeta ha compiuto la sua prima migrazione, da un corpo biografico “fittizio” a un corpo poetico “reale”. 

Altro tema della raccolta, oltre il tempo, è quello notturno. La notte è un’eterna compagna, che porta con sé dannazione e odio. La notte è il buio dove rimbomba l’eco lontano dei ricordi che graffiano l’anima come nel vuoto dei secoli. Nella notte l’essere si annulla e le parole sono l’unica cosa che esiste.

Della notte so poco
Ma di me la notte sembra sapere,
e più ancora, mi assiste come se mi amasse
mi ammanta di stelle la coscienza.

L’Albero di Diana, pubblicato nel 1962, è come uno scrigno della poesia di Alejandra Pizarnik, così violenta, simbolica e carica di emozioni. Come spiega Octavio Paz nella prefazione, l’albero non proietta ombra, non ha radici e nei suoi rami scorre una preziosa linfa lunare o “lattescente”. 

L’immagine dell’albero di Diana, ci riporta alla sacralità della natura, al mistero, e la sua dea (Diana, protettrice della caccia e della luna) ci riporta alle qualità divine della notte. Alejandra Pizarnik canta immagini di fiori secchi in ampolle di vetro, visioni feroci e macabre della gola viva di uccelli pietrificati, dove le parole sono intrappolate come pietre preziose. 

Ho lasciato il mio corpo accanto alla luce
E ho cantato la tristezza di ciò che nasce.

Si fa sempre più forte l’esigenza di parlare e di esplorare la doppiezza: la poeta sente un’altra presenza in sé, e ha bisogno di osservarsi allo specchio per dare un volto a colei da cui si sente divorare dall’interno. L’unica possibilità che resta è quella dell’immobilità totale, di lasciarsi imbavagliare dal buio opaco della notte: 

Qui viviamo con una mano alla gola. Che nulla è possibile già lo sapevano gli inventori di piogge e tessitori di parole tormentati dall’assenza. Perciò nelle loro orazioni c’era un suono di mani innamorate della nebbia.

La prosa poetica: Estrazione della pietra di follia 

Quest’opera è un lungo dialogo della poeta argentina con sé stessa, dove ancora una volta dominano la notte, la follia, l’altra sé. In un flusso incessante di pensieri, osserviamo il naufragare dolce e silenzioso di Pizarnik tra le sue parole, tra prati verdi perduti nei ricordi, sentieri boscosi e vecchi giardini. 

Il silenzio è l’elemento dominante di questo scritto, e la poesia che sgorga fuori dalle pagine è solo “un tentativo di sbrogliare la mia gola”. Quello che esiste, quando non c’è il silenzioso, ci induce a una coabitazione frustrante con la banalità della parola, una condanna, a cui Alejandra riconduce un desiderio incessante di silenzio: “Ogni ora, ogni giorno, io vorrei non dover parlare”.  

La vita poetica è fare esperienza di sé attraverso la natura, attraverso gli altri, attraverso lo specchio, e la sua massima ambizione è quella di tradursi in parole.

Ma non parlare dei giardini, non parlare della luna, non parlare della rosa, non parlare del mare. Parla di ciò che sai. Parla di ciò che vibra nel tuo midollo e che dà luce e ombra al tuo sguardo, parla del dolore incessante delle tue ossa, parla della vertigine, parla della respirazione, della tua desolazione, del tuo tradimento. È così buio qui, così muto il processo a cui mi costringo. Oh, parla del silenzio.

L’inferno musicale

Nell’ultima raccolta poetica scritta prima di togliersi la vita, torna il tema dell’emigrazione dal sé, ma quello che prevale su tutto è la paura. In queste poesie vediamo la fragilità di una bestiolina (bicho – come la chiamava Cortazar) impaurita da questa sua anima intermittente, ora profuga ora bambina sperduta, ora libera ora “naufragata in sé stessa”. Gli ultimi versi della Pizarnik sono un grido di aiuto lanciato a nessuno, e lo scopo delle parole pronunciate è quello di dare forma a un’immagine in cui finalmente lei possa riconoscersi.

Sento risuonare l’acqua che cade nel mio sogno. Le parole cadono come l’acqua io cado. Disegno nei miei occhi la forma dei miei occhi, nuoto nelle mie acque, mi dico i miei silenzi. Tutta la notte attendo che il mio linguaggio riesca a darmi forma. E penso al vento che viene in me, perdura in me. 

El Infierno musical dipinge un luogo dall’atmosfera decadente e maledetta, dove gnomi sdentati masticano lustrini mentre la poeta, seduta in un caffè pieno di sedie vuote, guarda i passanti e si chiede “Che cosa ho fatto del dono dello sguardo?”. 

In una strana preghiera senza punteggiatura, si susseguono una serie di immagini che simboleggiano i resti. Quel che resta – che un tempo fu – è qualcosa di macabro, come forchette o portapenne di ossa intagliate, è qualcosa di vano, come una candela storta e consumata, o la sfera in frantumi di una veggente. 

Tra i lillà marciti, simbolo – forse – di un’infanzia ormai perduta, Alejandra Pizarnik scivola via dal suo corpo, con il presagio di morte evocato da una bambina che soffoca una colomba nel sonno, mentre degli zingari strimpellano violini sulle rive del Mar Nero. 

Io ero predestinata a nominare le cose con nomi essenziali. Io non esisto più e lo so; ciò che non so è che cosa vive al mio posto. 

Le parole ricorrenti di Pizarnik creano una costellazione di emblemi folgoranti e di significati che travalicano i confini freddi e inutili del linguaggio. Ripercorrendo alcuni estratti delle sue opere più importanti, ci appare una donna che camminò tutta la vita sull’orlo del baratro, in bilico tra il dovere di naufragare e la necessità di sopravvivere. 

La supremazia che attribuisce alla morte ha scolpito la sua visione e il suo linguaggio, e nella foga di eguagliare le parole e il loro potere evocatorio allusivo, l’astrazione completa culmina con la fuga definitiva da sé stessa. 

Beatrice Fagan