La piramide magica del Cocoricò | Intervista al regista Francesco Tavella

La piramide magica del Cocoricò | Intervista al regista Francesco Tavella

Esiste un luogo, sulla Riviera, che ha fatto la storia della club culture in Italia. Roccaforte dell’avanguardia artistica e musicale, nonché luogo simbolo degli anni Novanta, liberissimi ed eccentrici, trasgressivi e decadenti: varcarne la soglia significava entrare in un’altra dimensione, lasciando il resto fuori.

Cocoricò Tapes, esordio di Francesco Tavella e vincitore del premio per il miglior documentario nell’ultima edizione dell’Ortigia Film Festival, racconta la famosissima discoteca romagnola e la generazione che l’ha attraversata. Dalla performance al teatro, dalla musica al glamour, un luogo che ha segnato il costume e la società che oggi conosciamo. Sono gli anni di Berlusconi e di Cicciolina, di Craxi e di Saddam Hussein, ma anche di Franco Battiato, Grace Jones, Enrico Ghezzi, Jean Paul Gautier. Attraverso le voci di avventori e organizzatori, tra cui lo storico art director Loris Riccardi e il performer Principe Maurice, l’autore prova a delineare uno spazio e le molteplici soggettività che hanno contribuito a definirlo.

Perché hai scelto di raccontare il Cocoricò? Qual è il tuo rapporto con questo luogo?

Il rapporto con questo luogo è inesistente, nel senso che non l’ho mai frequentato. Però lo conosco da sempre, perché il Cocoricò è il punto di riferimento del mondo della notte, della musica techno, di un certo tipo di sottocultura che definirei molto allargata… Sono finito a fare un film sul Cocoricò perché Matteo Vallicelli, autore della colonna sonora del film, conosceva un ragazzo che faceva il DJ al Cocoricò, che a sua volta conosceva un tale con dodici e più cassette amatoriali girate nel locale. Attraverso questa persona siamo entrati in contatto con chi gestiva il club in quegli anni. Il Cocoricò era qualcosa di molto più profondo rispetto alla semplice discoteca, e subiva le contaminazioni del mondo esterno: dalla guerra in Iraq, alla presenza massiccia dei media… Ho trovato che fosse un buon modo per poter raccontare gli anni Novanta, gli anni in cui sono cresciuto: è qui che si trova, poi, il contatto vero tra me e il film.

Si può dire che il tuo intento, nel corso della lavorazione del film, si sia un po’ modificato?

Durante la fase di scrittura il film è cambiato, in base alle esigenze produttive o a idee che si sono modificate nel tempo. Dal momento in cui siamo andati al montaggio con una scaletta abbastanza definita, il film è sempre stato quello.

L’idea è stata, fin dall’inizio, di fare un film usando il meno possibile interviste fatte da noi oggi, e utilizzando quindi il più possibile interviste fatte all’interno del Cocoricò negli anni Novanta, facendo parlare quei ragazzi che avevano l’età giusta in quel momento lì. Non avrebbe avuto grande senso, per quanto mi riguarda, sentire oggi una persona di cinquant’anni che ti racconta di come si divertiva trent’anni fa.

Abbiamo la fortuna di avere tutti questi archivi, e quindi ho pensato fosse il modo giusto di sfruttarli. Prendere senza giudizio da parte mia, della produzione e di chi ha lavorato al film, pensando a restituire la realtà di quegli anni, in modo tale che ognuno potesse farsi la propria opinione semplicemente guardando. Noi non tiriamo né da una parte né dall’altra. Non sono fighissimi gli anni Novanta, non è fighissimo il Cocoricò, non è bello drogarsi, non è brutto drogarsi. È tutto lì.

L’idea era quella di creare un volto immersivo all’interno di una situazione, di un modo di pensare, un modo di vivere, di lavorare assieme. Il film comincia con Game Over, Try Again perché vuole essere un invito… e quindi a questo invito speriamo che si risponda immergendosi all’interno del film per capirlo al meglio.

Ci dicevi che attraverso il montaggio di materiale d’archivio e interviste hai deciso di far parlare direttamente le interessate e gli interessati. Da dove proviene il materiale? E com’è avvenuta la ricerca?

Il materiale proviene sia da questa fonte iniziale, questo ragazzo che aveva ripreso l’’interno del locale con la sua telecamera personale, sia da tutte le persone che hanno lavorato o frequentato il Cocoricò, e che abbiamo conosciuto negli anni con una rete sempre più vasta. Queste persone ci hanno fornito materiale, a cominciare dai grafici, che ci hanno lasciato tutti i flyer originali, oppure persone che ci hanno fornito le loro fotografie personali. C’è stata poi una ricerca all’interno degli archivi Rai e Mediaset, all’interno degli archivi delle televisioni locali. Tutta la parte relativa agli elementi esterni al Cocoricò, invece, viene un po’ da Mediaset, dalla Rai, da archivi americani… è stato un gran lavoro per provare a rendere quello che era il Cocoricò come modo di agire. Il Cocoricò era un insieme di sentimenti che si mischiavano tra di loro, creando quello che poi era evidentemente l’effetto Cocoricò, perché non stiamo parlando di un locale che oggi viene mitizzato per quello che ha fatto trent’anni fa: il Cocoricò era mitico già trent’anni fa.

Mi sembra, ed è una cosa che ho apprezzato molto, che nel racconto di un luogo e una generazione che l’ha attraversato, il film riesca a recuperare quel particolare equilibrio tra cinismo e ironia, che caratterizza anche gli intervistati. È una scelta consapevole? Come si è formato il tuo sguardo sul Cocoricò?

Non si tratta del mio sguardo, questo è lo sguardo che ha già il Cocoricò, che si è trovato fortunatamente affine al mio. Quindi il motivo è questo, conoscendo poi chi ha fatto il Cocoricò, quindi Renzo Palmieri, ma soprattutto Loris Riccardi, con cui c’è un’affinità molto forte. Il Cocoricò era proprio un percuotere la mente, un “Fanculo la quiete”, una roba di attacco e di difesa, che quindi gioca sugli opposti, e chi gioca mettendo insieme gli opposti solitamente mi attrae. È divertente, ha sempre vari livelli di comprensione, di profondità del testo. Il Cocoricò non ha mai lanciato slogan tipo “No alla guerra”, o sì a qualcos’altro. Il Cocoricò ha sempre scelto delle frasi incomprensibili, come “Non sarò mai più un ragazzo dello spazio”, o appunto “Fanculo la quiete”, o tante altre, senza però mai dare il proprio punto di vista sulle cose. Il Cocoricò ti metteva in mano un proiettile, poi tu eri libero di pensare quello che volevi riguardo la guerra e la situazione che ti circondava in quel momento. Era un po’ questo il bello, ed è stato facile quindi mischiare insieme a loro le carte, per far venire fuori questo aspetto cinico, ironico.

I film composti da materiale d’archivio portano sempre con sé una certa dose di nostalgia. Cocoricò Tapes, poi, è proprio il ritratto di una generazione che non esiste più. Il Cocoricò era un luogo d’aggregazione, ma il modo d’aggregarsi è cambiato. Perché questo film è importante oggi?

Ah, che domanda! È importante perché è uno sguardo sincero riguardo quello che era quel periodo, grazie all’uso per lo più di materiali d’archivio girati lì dentro, non influenzati dai nostri meccanismi di montaggio per alterarne i significati. Le frasi elettroniche, le cose che dicono i ragazzi rappresentano quel momento. Da questo punto di vista dico: guardate il film cercando di capire come le persone stavano assieme, come si confrontavano. Gli anni Novanta erano sicuramente anni in cui c’erano forse meno stimoli, ma di maggiore qualità, e chi veniva a contatto con determinate cose ne era realmente curioso. A differenza, magari, di momenti in cui tutti hanno tanto, però alla fine, forse, a pochi interessa realmente.
Quindi non so come bisognerebbe guardare il film… è stato un momento di grande libertà creativa. Dovrebbe essere un spinta per chi ha voglia di proporre cose belle, cose interessanti. Spero si capisca che il Cocoricò era molto più di una semplice discoteca. È vero che restava un’operazione commerciale, nel senso che il locale doveva guadagnare, ma l’impegno e la creatività di chi lo gestiva hanno dato vita a qualcosa di veramente clamoroso, in un contesto culturale differente rispetto a quelli che adesso veneriamo di più. Nessuno oggi si permette di dire male degli hippy degli anni Sessanta o della musica psichedelica, come movimenti di aggregazione anche quelli musicali. Forse ancora non siamo pronti per digerire bene il movimento techno degli anni Novanta, quel tipo di movimento culturale.

Sotto la piramide si sta come in un altro mondo. Il rapporto tra realtà e finzione, e come l’una e l’altra si intersechino e ridefiniscano, è uno dei temi del film. Il Cocoricò, poi, è stato spazio sicuro e luogo d’espressione privilegiato per tante e tanti esponenti della comunità queer. È forse proprio nell’iper-rappresentazione che si riesce ad essere se stessi?

Quello che oggi viene interpretato come iper-rappresentazione, all’epoca veniva vista come una voglia di libertà senza limiti.
Forse non come un iper-qualcosa, ma semplicemente, da quello che ho visto, dalle persone che ho incontrato, era normale il sabato sera, per chi frequentava determinati ambienti, eccedere. Però non per sentirsi differenti… perché era così. Cioè, senza che neanche loro stessi, probabilmente, si dessero un giudizio. Vivevano semplicemente quel momento.

“Chiudere tutte le discoteche… la mia per ultima!”, “Fanculo la quiete”. Eccentrico e al tempo stesso restio a mostrarsi, iconico art director degli anni d’oro dal 1993. Pensi, ad oggi, di essere riuscito a “decifrare” Loris Riccardi?

Beh, Loris Riccardi adesso è la mia guida spirituale, quindi no, non credo che riuscirò mai a decifrarlo… lui probabilmente è già riuscito a decifrare me, ma va bene così. È un personaggio incredibile, ha una creatività e un’energia veramente interessanti, una curiosità, conoscendolo capisci quali sono stati gli elementi che hanno reso grande quel gruppo di lavoro e il Cocoricò. Perché è una persona che, pur essendo distante da tutto, è sempre al centro delle cose che è importante conoscere.

La discoteca è morta?

Secondo me la discoteca, ma lo dice anche Loris nel film, aveva ragione d’essere e ha raggiunto il suo apice in quel momento lì, per quei motivi.
Il Cocoricò è vivo sotto un’altra forma, fa le sue serate, c’è a chi piace, c’è a chi non piace.
Se ci si diverte come negli anni Novanta, questo lo metto in dubbio… ma perché sono proprio cambiati i modi di vivere, di organizzare. Pensa che il Cocoricò di Loris si poteva permettere due maiali in pista, oppure di riempire con dei quarti di bue l’ingresso e di farti entrare in situazioni veramente estreme, o di tappezzare di armi il locale. Adesso sarebbe impensabile. È proprio un’altra cosa. Quindi la risposta alla tua domanda probabilmente è che la discoteca è viva e il Cocoricò è vivo, ma sotto un’altra forma, sotto un altro modo di esporsi.

Valentina Pietrarca