5 ALIEN HORROR PICTURE SHOWS 

5 ALIEN HORROR PICTURE SHOWS 

Deserto del Nevada. Nella notte immobile e rovente, si leva un turbine di sabbia. Dei fari abbagliano il nulla del deserto. Sulle note spettrali di un theremin si staglia una navicella spaziale discoball anni ‘80. Sabbia, fumo e luci accecanti e colorate si affastellano in una sinfonia epilettica, fino a confondere lo spaziotempo. Una sagoma nera segna l’ingresso degli alieni sul pianeta terra. Sono umanoidi, oppure entità astratte che si impossessano degli umani, in qualche modo sempre antropomorfi. Hanno l’inspiegabile abitudine di atterrare entro i confini statunitensi (forse proprio perché conoscono bene l’inglese?) con l’obiettivo di dominare la popolazione terrestre per un qualche scopo malvagio.

Plan 9 From Outer Space

Il concetto di alieno porta inevitabilmente con sé il sottotesto dello straniero, che per fattezze e comportamenti si pone al di fuori della comunità, non è conforme. Non sembra un caso che i primi film a tema UFO furono prodotti negli U.S.A., paese da sempre caratterizzato dall’angoscia atavica di essere invaso e annientato dal nemico del momento – l’URSS, il Giappone, il Medio Oriente o gli yankees stessi. Al pari di questi nemici geopolitici, gli stranieri intergalattici vogliono trarre vantaggio dal dominio sul mondo, fatta eccezione per un numero esiguo di opere come E.T. The Extra-Terrestrial di Spielberg, uscito nel 1982, agli albori dell’era reaganiana. 

Per tutto il decennio la Casa Bianca fu abitata appunto da Ronald Reagan, repubblicano (qualcuno, un certo John Hinckley, provò pure a sparargli per fare colpo su Jodie Foster). Sotto la sua egida il chiasso delle contestazioni giovanili degli anni Settanta fu placato a favore di una piega più genuinamente neoliberista: i ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri, familismo e pessime politiche in fatto di questioni di genere e sessuali. Nel cinema la libertà creativa della New Hollywood (qui ne ho accennato qualcosa) fu spazzata via a suon di disco music, mullet cotonati, scaldamuscoli e orecchini di plastica rosa shocking a forma di stella, e fu restaurato il vecchio sistema industriale delle major. Iniziò l’era del puro divertissement, così redditizio per le tasche dei grandi produttori, e più in linea con lo spirito edonista del tempo. La figura del produttore riprese possesso di ciò che le era stato sottratto dagli autori negli anni della Nuova Hollywood: il final cut.

Per dimenticare l’assurdità del reale che mi circonda, forse inconsciamente influenzato dalla mania suscitata dalla quarta stagione di Stranger Things,  e per distrarmi dal caldo sempre più incendiato dell’estate – che ogni anno rafforza l’idea di fuggire su plutone alla ricerca del vero refrigerio senza i consumi e l’inquinamento ambientale dei climatizzatori – ho spulciato nei meandri dell’horror fantascientifico anni Ottanta U.S.A., regno della Nasa, dell’Area 51 e della paranoia, nonché principale influencer in materia di teorie complottiste.         

Plan 9 from Outer Space – Edward D. Wood Jr, 1959

Ma facciamo un passo indietro. Più di vent’anni prima che arrivasse l’era della ribalta neoliberista, Edward D. Wood Jr., per gli amici Edwood, da alcuni considerato il padre dell’horror fantascientifico, ci regalò una perla destinata a entrare a gamba tesa tra le pietre miliari del grande schermo. Vent’anni dopo la sua realizzazione fu definito come il peggior film di tutti i tempi,così brutto da diventare una pellicola di culto che al giorno d’oggi è nel dominio pubblico degli Stati Uniti. Il film racconta di alcuni alieni che arrivano sulla Terra per salvare l’intero cosmo. Gli umani infatti stanno sviluppando delle armi di distruzione di massa capaci di distruggere l’intero universo. Nonostante il ricorso a risorse alquanto bizzarre – vampire e zombie – la nobile causa degli extraterrestri è destinata a fallire. Proprio come mi immagino i sogni di uno yankee piccolo borghese di fine anni Cinquanta, in cui l’Unione Sovietica riconosce la superiorità statunitense e poi viene sconfitta.   

La povertà dei mezzi produttivi è avvertibile in ogni singola inquadratura, a partire dagli iconici fili a vista che sorreggono navicelle spaziali vistosamente posticce.

Tuttavia i retroscena sono ricchi e succosi, e delineano un amore folle, a tratti geniale, del regista per la settima arte. Uno su tutti riguarda la presenza di Bela Lugosi nei crediti: ungherese naturalizzato statunitense, l’attore è stato un celebre impersonificatore del Conte Dracula. Da tempo caduto in disgrazia, cercò le luci della ribalta nelle opere di Ed, ritrovandosi a interpretare suo malgrado patetiche parodie di se stesso. Per realizzare Plan 9 from Outer Space Ed decise di sciacallare su Lugosi, allora morto già da diversi anni: inserì infatti nel film parti girate per altri scopi per poterlo annoverare a pieno titolo nei crediti, col fine di rendere più interessante il suo lavoro ai soggetti di interesse.

Bela Lugosi in una scena del film

Tra questi figura l’attore protagonista Gregory Walcott, che accettò la parte solo per vedere il suo nome scritto accanto al leggendario Bela Lugosi. Anni dopo commentò:

Ed had poor taste and was undisciplined. If he had ten million dollars, [Plan 9] would still have been a piece of tasteless shit. I liked Ed Wood but I could discern no genius there. His main concern was making his next film… It looked like they shot the thing in a kitchen… worst film of all time.    

The Thing – John Carpenter, 1982  

Antartide. A bordo di un elicottero, dei ricercatori scandinavi cercano di abbattere un husky in corsa. L’animale raggiunge la base statunitense e l’equipaggio scende a terra per portare a termine l’obiettivo. A uno degli assalitori scivola disgraziatamente una granata e fa saltare in aria tutti. Gli yankees, colpiti dalla bizzarria della situazione, decidono di indagare. Tra le macerie della stazione norvegese trovano uno strano cadavere a due teste, che decidono di esaminare. Scopriranno a loro spese che si tratta di una forma di vita aliena in grado di assumere le sembianze degli esseri viventi che incontra assimilandoli. 

Carpenter, che aveva già girato quattro anni prima Halloween, capostipite di una delle più celebri saghe horror cinematografiche, traspone sul grande schermo il racconto Who Goes There? del 1938 di John W. Campbell, uno dei padri fondatori dell’epica spaziale. 

Si ritrova il realismo visivo tipico della New Horror nella rappresentazione del fantastico grazie alla sinergia tra la fotografia di Dean Cundey (candidato al Premio Oscar per Chi ha incastrato Roger Rabbit, Robert Zemeckis, 1988) e gli effetti speciali di Rob Bottin. Cottin, che all’epoca aveva poco più di vent’anni, fu candidato ai Saturn Awards – l’Oscar per i film di fantascienza, fantasy e horror.   La macchina da presa ci mostra i dettagli anatomici come se fosse un medico forense allo stesso modo del dottore che disamina la strana creatura a due teste. L’analisi rivela la capacità di assimilare gli esseri viventi – uccidendoli – per replicarne le caratteristiche. Questo subdolo potere fa sorgere alcune questioni: chi sono gli umani? E chi gli alieni? Quesiti che condurranno alla paranoia più totale. La minaccia aliena, annidata dentro i corpi delle persone, sembra scivolare in secondo piano per far emergere una visione cupa e nichilista dei rapporti umani, ormai completamente corrosi dalla sfiducia. La “cosa” più che uno straniero venuto da chissà dove, sembra essere la proiezione di questo progressivo e inesorabile sfilacciamento sociale.  Le stanze anguste e claustrofobiche della base e i nevai bui e angoscianti, sferzati da potenti tempeste di ghiaccio, non fanno altro che sottolineare lo sgomento per la perdita di ogni certezza, la caduta dei confini che separano alieni da umani.      

Lifeforce – Tobe Hooper, 1985

Durante una spedizione spaziale angloamericana, l’astronave Churchill scopre un’altra astronave, celata nella coda della cometa di Halley. Come un castello di Dracula intergalattico, la navicella custodisce al suo interno pipistrelli giganti e tre bare di vetro in cui dormono altrettanti umanoidi, tra cui la regina dei vampiri (Mathilda May). Proprio come il Conte arriva a Londra dalla Transilvania su una nave dopo aver ucciso tutto l’equipaggio, così i tre vampiri invadono la terra sterminando l’equipaggio della Churchill. Il protagonista (Steve Railsback) è l’unico che riesce a salvarsi poiché viene scelto dalla regina – detta anche Space Girl – come suo protégée. Soltanto uccidendola con una particolare spada sarà possibile sventare l’insediamento dei vampiri sulla Terra.

Undici anni dopo Non aprite quella porta, basandosi sul romanzo The Space Vampires di Colin Wilson, del 1976, Tobe Hooper regala un’opera di genere – prodotta dalla britannica Cannon Films – che propone un personaggio femminile importante ai fini del racconto (dopo tutto l’antagonista è centrale tanto quanto il protagonista, no?). Fino ad allora nel cinema fantascientifico solo il tenente Ellen Ripley (Alien, Ridley Scott, 1979)  aveva avuto un ruolo centrale nella lotta agli alieni. Lo propone nel bel mezzo della presidenza repubblicana di Raegan (e forse non è un caso che la produzione sia britannica) che vede la donna al classico ruolo di custode del nido familiare. La regina dei vampiri è potente, sentimentalmente e sessualmente indipendente, padrona di sé, ammaliatrice. Quella che un benpensante potrebbe definire come puttana. È una donna fortemente erotica: nei pochi minuti in cui compare è sempre completamente nuda, fatto che ha creato un bel po’ di problemi nel trovare l’attrice per il ruolo – Mathilda May fu scritturata soltanto perché accettò di spogliarsi completamente davanti alla macchina da presa. È lei stessa a scegliere chi amare e da chi essere amata, è la conquistatrice, non la conquistata. In quanto vampira è la regina della notte, simbolo dell’inconscio. Insomma, la classica minaccia alla mascolinità basic.    

Ecco allora che nel buio di una Londra post apocalittica si levano dei raggi colorati, vibranti di vitalità, che passano dagli umani agli alieni, come simboli di pulsioni erotiche e recondite che prendono forma dal magma oscuro dell’inconscio. 

Bad Taste – Peter Jackson, 1987

Una scalcagnata task force anti aliena chiamata “The Boys” tenta di fermare un’invasione di extraterrestri che hanno l’intenzione di usare la carne umana nella loro catena di fast food intergalattica.  

Bad Taste è l’ opera prima di Peter Jackson, a basso budget e ad alto livello di DIY – Do It Yourself: le maschere degli alieni infatti furono cucite dallo stesso regista nella cucina di sua madre. Nato come cortometraggio, Jackson decise di realizzarne un lungo ispirato da Sam Raimi e il suo La casa, che girò servendosi dei suoi amici come attori e di espedienti tecnici fai-da-te. Così il giovane cinefilo neozelandese, prima di raggiungere la fama mondiale con Il Signore degli Anelli, realizzò  pellicole destinate a diventare di culto, prima su tutte Splatters – gli schizzacervelli

La prima cosa che salta all’occhio di Bad Taste è che i personaggi  sono tutti uomini. Neanche una donna uccisa all’inizio per fare cliché. Ne La cosa di Carpenter la presenza di soli uomini in un luogo tanto particolare come una base di ricerca in Antartide negli anni Ottanta non sconvolge. Fortunatamente tutto questo concentrato di testosterone non è così alto come si potrebbe pensare: sia i The Boys che la banda di alieni hanno una virilità più vicina a quella di Ugo Fantozzi che non di Bruce Willis.       

Nonostante il puro piacere per il cattivo gusto sia il vero protagonista della storia – costellata di nefandezze tipo la degustazione di una zuppa nouvelle cuisine a base di vomito umano, cervelli che vengono ricacciati nei crani di appartenenza e molto altro – si possono scorgere nell’ invasione aliena echi di imperialismo capitalista. Quelle creature mostruose infatti hanno l’intenzione di sfruttare gli abitanti del pianeta terra come carne da macello da vendere nei fast food ai loro conterranei. Non si tratta di un bisogno necessario come la sopravvivenza, ma dell’importazione di un nuovo sapore esotico nel proprio mercato per aumentare gli zeri dei dividendi.   

Liquid Sky – Slava Tsukerman, 1982

Una piccola navicella spaziale, grande come un piatto, atterra a New York e osserva la vita della protagonista Margaret (Anne Carlisle) modella dello scenario underground new wave newyorkese, che deve sopravvivere in un ambiente fatto di allupati che la sessualizzano in quanto bisessuale, professionisti della moda più interessati a farsi che non a lavorare, stupri e chi più ne ha più ne metta. Convinta di essere capace di uccidere scopando, si cala progressivamente in una follia omicida, che la porterà alla disgregazione quando capirà che non è stata lei ad aver ucciso le persone con cui è andata a letto. 

Slava Tsukerman è una regista e produttrice nata nell’Unione Sovietica e trasferitasi a New York nel 1976, dove abita tuttora insieme a sua moglie e produttrice Nina Kerova. Opera prima (e unica), si tratta di un film prevalentemente al femminile non soltanto per la protagonista: la regista ha scritto la sceneggiatura insieme a Kerova e Carlisle, prodotto il film con Kerova, composto le musiche insieme a Brenda I. Hutchinson. Tutto è queer, underground, No Wave e New Wave allo stesso tempo. Sono New Wave gli abiti, minimalisti nei tessuti monocromatici e sgargianti, razionalisti nelle loro geometrie di design, così come i volti, colorati da trucchi influenzati da David Bowie. Sono queer i corpi e le sessualità non conformi, come la pansessualità di Margaret, che si chiede che senso ha distinguere tra maschi e femmine quando quello che le interessa è la persona. È No Wave la musica, suoni elettronici stranianti, destrutturati, che in qualche modo ricordano le sonorità graffianti e distorte di Lydia Lunch e i Teenage Jesus and The Jerks.

Liquid Sky, con tutte le sue imperfezioni, è una piccola perla del cinema indipendente, genuinamente underground, che si fa beffe del decoro reaganiano, proponendo un freak show psicotropo e allucinato, illuminato da tubi di neon verde acido, rosa shocking e blu elettrico. Anzi, Tsukerman si spinge un po’ oltre, ribadendo che freak o meno, tutti facciamo parte di uno show, a prescindere da quale sia il costume che ci scegliamo. Durante uno shooting infatti, Margaret si ritrova a discutere col fotografo, che la accusa di essere freak per com’è vestita. Ma gli abiti ordinari dell’uomo non sono anch’essi un costume?  

Alessio Chiappi