Durante il Nòt Film Festival di Santarcangelo, svoltosi a settembre, abbiamo avuto l’opportunità di incontrare la regista Natalie Spencer, che ha presentato il suo primo cortometraggio, Hunger, nella sezione dei Cortometraggi Sperimentali, dove ha trionfato, vincendo il premio! Nel corso della nostra conversazione, abbiamo esplorato il mondo dei cortometraggi sperimentali e l’uso della multimedialità, la tematica della fame e la sua personale percezione del tempo.
Cosa ti ha ispirato a creare Hunger?
L’ispirazione principale di questo progetto è basata sulla sensazione che si prova quando ci si trova davanti alla potente presenza mistica di un vulcano attivo. Poi, a differenza dei vulcani circostanti, l’Etna è l’unico ad essere considerato fonte di una “energia femminile”, e questo mi incuriosiva molto.
Mi divertiva l’idea di assegnare il ruolo principale ad una figura della natura e la sfida nel far sentire la sua presenza, malgrado l’assenza di un’apparizione tangibile nel corto.
È tutto un gioco, e io mi diverto a provare – e a provocare – una reazione. Forse il momento nodale in cui Hunger si è trasformato da un’idea ad un progetto da realizzare nella realtà è stato quando la prima persona si è unita al corto: la casting director Simona Barbagallo, alla quale non solo è piaciuta l’idea ma si è anche messa subito a disposizione malgrado il budget modesto, il last minute, il periodo estivo e il fatto che si trattasse della mia prima esperienza come regista. La fiducia quasi istantanea che mi ha dato è stata una grande fonte d’ispirazione di per sé, per poter prendere l’idea sul serio.
Le grandi esperienze cinematografiche per me sono state momenti in cui ho sentito qualcosa di molto forte come reazione, in cui ci ho messo del tempo anche in seguito per decifrare e capire esattamente che cosa avevo provato e perché. La scena sulla spiaggia in Under the Skin ad esempio, o la famosa puntata della terza stagione di Twin Peaks, sono degli esempi di momenti in cui sono stata colpita in modo impressionante sensorialmente. Uno dei miei obbiettivi è stato di provare a suscitare una reazione simile, di connessione, tra le scene del mio corto e lo spettatore.
Come è nata l’idea di fare un film sperimentale piuttosto che un’opera narrativa tradizionale?
Mah, in verità non sono partita con questa intenzione. Questo è stato un progetto che ho sviluppato passo per passo, un po’ come mettere le mani avanti nel buio per sentire se quello che c’è va bene o no … Capire chi sarebbe stato il protagonista, per esempio, è stata una decisione che ho preso in post-produzione. Avevo ben chiaro ovviamente il ruolo che avrebbe avuto Etna, ma non ero ancora certa da quale punto di vista, tra i tre personaggi, la storia sarebbe stata raccontata.
Quando sono arrivata al primo passo del montaggio, ho deciso di osare per capire se avrei potuto mantenere l’idea di Etna come protagonista. Abbiamo trovato Maribella Piana, l’attrice che interpreta il ruolo di Etna, e dopo aver sentito la potenza della sua voce, ho capito subito che sarebbe stato possibile, che sarebbe stata lei. Anzi, ero emozionata, avevo l’impressione di aver fatto una bellissima scoperta e che avessimo trovato una persona che incarnasse perfettamente il ruolo, come se fosse stato creato proprio per lei. Questo stile sperimentale dunque è proprio il risultato di un certo tipo di processo, piuttosto organico nel suo sviluppo. Penso che si tratti innanzitutto di capire se lo stile sia adatto al soggetto da esplorare. E per raccontare una storia dove il protagonista è un vulcano, un’idea così assurda, il risultato doveva uscire in modo sperimentale per forza.
Come hai sviluppato la tua visione estetica per il film?
Sono una grande fan di mixed-media in generale. Mi piace il concetto del riutilizzo del materiale d’archivio. Ho spesso una sensazione di curiosità o di vicinanza con l’autore originale quando sto integrando il suo lavoro con il mio, nelle mie riprese. Mi piacciono i paradossi, mi piace unire due immagini per creare un nuovo significato. Su questo, la serie degli anni Ottanta di Godard, Histoire(s) du cinéma, è stata una fonte di ispirazione notevole per me. Per quanto riguarda il mio uso del super8, è tutto iniziato come un test, nel senso che ho ereditato una macchina da presa che non ero sicura funzionasse ancora. Mi sono detta che un terreno vulcanico sarebbe stato un paesaggio perfetto per testarla. Mi ricordo delle salite sul Vesuvio e sull’Etna. Mi sono sempre sembrati dei pianeti diversi e desideravo vederli tramite la lente della pellicola.
Il mix tra le mie riprese in pellicola e quelle degli archivi mi è parso anche una buona strategia per togliere tutte le tracce di una certa epoca come ambientazione del film, fornendo un palcoscenico astratto allo spettatore, che avrebbe funzionato bene per questo racconto piuttosto surreale.
Il tuo corto esplora dei temi particolari o concetti astratti?
L’idea di base era quella di stabilire una connessione fra lo spettatore e il mondo naturale, in modo che risultasse anche inquietante a volte, così da farci ricordare l’onnipotenza delle forze della natura e la nostra insignificanza in confronto. Mi è piaciuta molto l’idea di avere un personaggio femminile che fosse un’incantatrice, e che allo stesso tempo non fosse un personaggio legato all’attrazione sessuale. Già a partire dalla sequenza di apertura verrebbe naturale concludere che il film esplori l’ennesimo caso di una ragazza del posto inseguita da un turista libidinoso, mentre la storia alla fine risulta essere diversa e piuttosto assurda. In questo caso, sia la ragazza che il ragazzo sono alla mercé di un personaggio molto più sinistro che muove i fili sullo sfondo: infatti, in realtà, il ragazzo cadrà vittima di una trappola alquanto singolare, ingegnata dalla dea vulcanica e impetuosa, Etna.
Come hai scelto di comunicare le tue idee?
Quando ho rivisto per la prima volta le mie riprese, ho annotato delle prime immagini che mi venivano in mente che potevano accompagnare quello che avevamo già sviluppato. Forse è per questo che la comunicazione delle idee a volte può sembrare un po’ come un flusso di segnali cerebrali: infatti a volte sembra avere un senso, altre volte tende più all’astratto. Ma ci tenevo a rimanere fedele ai primi pensieri che mi passavano per la testa, sempre con l’idea di sperimentare.
Per fortuna ho avuto l’aiuto di due ricercatori d‘archivio formidabili, Clément Lafite e Beatrice Proietti, che hanno accolto le mie proposte, a volte davvero assurde (come “un piccione sotto ipnosi, se riuscite”), come una bella sfida e mi hanno consegnato una raccolta che sembrava veramente concepita dalla mia testa.
Qual è stata la sfida tecnica più grande che hai affrontato?
Forse la gradazione del colore. Ho portato un montaggio alla colorista sia in bianco e nero che a colori, con immagini di diversi formati, girate da macchine diverse…con l’obiettivo di uscire con un film che sembrasse un flusso scorevole onirico. Fortunatamente avevo il sostegno di una colorista estremamente talentuosa, Sara Buxton, che non mi ha mai fatto sentire – né pesare – la complessità di quello che le stavo chiedendo.
Come speri che il pubblico interpreti il tuo lavoro? C’è una chiave di lettura che vorresti suggerire o preferisci che ognuno trovi il proprio significato?
Io spero semplicemente che il pubblico si senta portato lontano, nel tempo e nello spazio, per un attimo, e che si lasci andare a qualsiasi pensiero arrivi durante la visione. Infine che si ricordi che siamo solo di passaggio su questa terra, ed Etna mi sembrava una voce giusta per ricordarcelo.
Dove possiamo vedere Hunger prossimamente?
Hunger parteciperà al Soundscreen Film Festival (Ravenna) il 29 settembre e sarà anche proiettato al MONK (Roma) il 6 ottobre.
Glesni Trefor Williams