Spero, un giorno, di poterti incontrare di nuovo | Intervista ad Alberto Diana

Spero, un giorno, di poterti incontrare di nuovo | Intervista ad Alberto Diana

È assurdo che nessuno ne parli.
Che cosa posso fare stando qui?

Nella pervasività delle immagini a cui siamo sottoposti (e ci sottoponiamo) quotidianamente – tra televisione, Internet, social network, cartelloni pubblicitari – spesso ci capita di rimanere spaesati e inermi, senza alcun punto di riferimento. Sulle nostre bacheche virtuali video di guerra e morte si alternano in maniera convulsa a ricette, gattini, neonati, gente in vacanza. Qual è il confine tra immagini amatoriali e di propaganda? Abituati a tal punto a questa routine di consumo bulimico,  può risultare difficile orientarsi e non farsi sopraffare da un senso di inquietudine e di impotenza che ormai sembra essere diventato la norma.

Ma ecco che il mezzo cinematografico può venirci in soccorso, non tanto con uno scopo informativo, bensì con la proposta di punti di vista differenti, di nuove prospettive e risignificazioni delle immagini. Ne sono un esempio le opere che saranno presentate il 2 aprile nel corso del quinto appuntamento della rassegna Indocili al Cinema Beltrade di Milano: due capitoli della serie Bottled Songs 1-2 dei filmmaker Chloé Galibert-Laîné e Kevin B. Lee e il corto Carta urgente para Colombia di Alberto Diana. 

Quest’ultimo film, su cui abbiamo avuto l’occasione di dialogare con lo stesso regista, offre una personalissima visione delle proteste avvenute in Colombia, durante la terza ondata della pandemia nella primavera del 2021, contro la riforma tributaria dell’allora governo di Iván Duque. Tali sommosse portarono a una violentissima reazione della polizia, con decine di morti e centinaia di persone scomparse. Attraverso il montaggio di suoi stessi video e di immagini e audio inviati dagli amici, con il suo corto Alberto Diana tenta di dare voce a un paese che non si arrende e a cui è fortemente legato proprio perché ci ha vissuto, intessendo delle relazioni umane molto profonde.

Persone e relazioni

Carta urgente para Colombia – titolo che prende ispirazione dalla canzone di Silvio Rodriguez Canción Urgente para Nicaragua è un lavoro nato a partire da contingenze precise e da importanti legami umani per il regista. Una volta tornato in Italia, infatti, si è ritrovato a seguire da lontano ciò che stava accadendo ai suoi amici rimasti lì, ricevendo da loro moltissimo materiale video, foto e audio, nel tentativo di colmare la distanza che li separava. Da qui è nata poi un’esigenza molto forte di voler dare una forma, una personale interpretazione a questi scambi. Come ci racconta lo stesso Diana: «nel momento in cui ho iniziato ad avere queste corrispondenze, in qualche modo ho avuto già la sensazione di iniziare a montare un film, a intraprendere un processo che per me era straordinario, simile a quello dell’edizione».

Incoraggiato anche da Gaetano Crivaro e Margherita Pisano dell’Associazione L’Ambulante, organizzatori della residenza artistica Remix, il cui scopo era di «realizzare delle opere cinematografiche con archivi del web», il regista ha portato a compimento questo lavoro per mantenere le relazioni con gli amici rimasti in Colombia e poter dare loro una voce. 

Voci

La dimensione della voce, del suono, infatti, è importantissima nel lavoro del regista, tanto quanto quella visuale. Diana ha deciso di non utilizzare una voce off come filo conduttore tra le immagini, ma piuttosto di riprendere gli audio che gli inviavano i suoi cari via Whatsapp, in una forma di autonarrazione: «non volevo che la mia voce fosse presente, volevo che fossero loro stessi a raccontare ciò che stavano vivendo». Da qui il ricorso delle scritte su fondo nero, riportando solo il suono senza alcun tipo di immagine, al fine di rendere ancora più evidente la distanza che li separava.

«Una delle cose che mi ha più toccato personalmente, da giovane europeo bianco privilegiato e con piena libertà di movimento, è stata quella di aver sentito davvero per la prima volta la frontiera», aggiunge il regista, che con quest’opera ha cercato di rispondere alla sua sensazione di impotenza, sentendosi legittimato a parlarne per il suo coinvolgimento personale.

Distanza

Volendo reagire a una tale contingenza personale precisa, il film si connota come un’opera «sulla distanza, sulla comunicazione, sui contatti», per quanto siano anche presenti elementi di tensione e di attenzione politica rispetto a quello che stava accadendo in quel momento in Colombia. Paese in cui, comunque, quelle proteste hanno portato a un cambiamento effettivo con l’elezione storica dell’attuale presidente Gustavo Petro nel 2022, leader del partito Colombia Humana, facente parte della coalizione di sinistra Pacto Histórico.

La distanza, che potrebbe trasformarsi in una reale impossibilità di agire, diventa invece un mezzo, un pretesto per creare un lavoro dove al centro stanno le relazioni umane che riescono ad essere mantenute attraverso la tecnologia. Facendo sue le lezioni di artisti come Jonas Mekas e Chantal Akerman, Diana attua una ricerca di «altre forme di comunicazione per tenere in vita dei legami», nell’ottica che «le relazioni umane sono qualcosa che non serve soltanto a garantire la sopravvivenza, ma anche a poter immaginare un futuro diverso»

L’archivio come mezzo di risignificazione

Il regista fa suo il concetto di archivio come qualcosa che «non è necessariamente il luogo dove vengono conservate le immagini del passato, perché in realtà tutto potenzialmente è archivio», dunque anche i video amatoriali e i messaggi vocali. L‘archivio non dovrebbe rimandare per forza a una materialità o a uno spazio fisico ma, al contrario, a una pratica e a un metodo per cui ogni film è potenzialmente un banco di prova per attuare dei processi di risignificazione che spesso hanno origine da un dolore personale, come in questo caso.

Internet e i social network sono un archivio potenzialmente infinito, un serbatoio da cui attingere per poter dare un proprio significato alla realtà. Ma è un processo tutt’altro che semplice e indolore. Se consideriamo, per esempio, come stiamo riuscendo a vedere a distanza il genocidio in corso in Palestina, non possiamo non rimanere totalmente increduli e sopraffatti dalla violenza di certe immagini. Una violenza che è duplice, perché «tali testimonianze audiovisive ci mettono di fronte alla realtà, rendendoci perfettamente consapevoli delle atrocità che stanno accadendo, e poi perché siamo rinchiusi in una condizione di totale impotenza, di non poter agire».

Ecco perché risulta importante, ed è una questione che rimanda alla pratica cinematografica, «trattare l’archivio non necessariamente come un documento o come una forma di verità, ma come qualcosa che può essere rielaborato, riletto, risignificato».

Proibito dimenticare 

In un mondo permeato di sopraffazione e violenza, un’opera come quella di Diana ci aiuta a comprendere quanto siano urgenti e coraggiosi questi atti di risignificazione delle immagini, che hanno poi come scopo primario quello di far in modo di non dimenticare ciò che è accaduto. Come dice il regista, infatti, «in un momento in cui la mia vita era altrove, stava andando altrove, sono stato completamente riportato, con la testa e col cuore, a quello che stava succedendo lì, a quelle persone che non potevo dimenticare». 

Come una delle scritte proiettate sui palazzi colombiani, frame ricorrenti nel film, è «prohibido olvidar». Ѐ proibito dimenticare.

Zoe Ambra Innocenti