In principio è la Txakurra. Senza di lei il trio Canemorto non è niente. Txakurra è una divinità canina sdraiata lungo i muri delle città, è un’entità maligna venerata per riempire e incidere brutalmente la tela, per tracciare con vernice spray la stoffa, il cemento, la carta, per generare immagini e volti mostruosi e sformati. Txakurra è tutto ciò che dà forma a un atto terroristico e teppistico nell’arte e nelle sue declinazioni: nella pittura, nella scultura, nel graffitismo, nella performance, nella musica, nel cinema.
Perché Canemorto, progetto collettivo (uno e trino) nato a Milano nel 2007, comprende nel suo culto (quasi) ogni disciplina. Ogni disciplina viene, cioè, avanguardisticamente danneggiata, decostruita, demolita, sfregiata, sarcasticamente perculata, ironicamente chiamata a deformarsi nel nome di un personaggio finzionale, entro un discorso allegorico, mitologico e narrativo che mira a distruggere il canone e fregare i parametri dell’arte contemporanea e del suo mercato per proliferazione virale, per un’estensione di campo che disgrega ogni paradigma, dogma e regola. Eredità delle avanguardie storiche a cui i Canemorto si rifanno consapevolmente, ma in particolare del writing e dell’arte urbana (quando non è asservita alle logiche del denaro e del consumo turistico). Il pennello, la bomboletta spray, il verso hip-hop e lateralmente il cinema sono le armi di questa operazione, che non riguarda solamente l’estetica, ma pone al centro (appunto, avanguardisticamente) dell’opera d’arte tutto quello che la circonda, la produce, la mette in circolo, con la lucida accortezza di distinguere chiaramente tra strada e galleria: insomma, la moneta con cui si compra e si rivende, con un piede di qua e uno di là.
Toys, Golden Age e l’ultimo En plein air nascono come estensioni e prolungamenti narrativi delle mostre omonime, allestite nelle gallerie di viafarini a Milano (2016), di Studio Cromie a Grottaglie (2017) e SpazioC21 a Reggio Emilia (2023). Quest’ultima arricchita anche dalla pubblicazione di Manuale infallibile di pittura en plein air edita da NERO Editions. L’occhio dietro alla macchina da presa di questa “Trilogia della Txakurra” è quello di Marco Proserpio, già regista di Dope Boys Alphabet e The Man Who Stole Banksy. Canemorto usano il cinema per avventarsi corrosivamente e ironicamente su quel che ruota attorno a una mostra e a un’opera, per mettere in scena il funzionamento del mercato dell’arte quando avviene il passaggio dal muro alla galleria; forse prima ancora come strumento comunicativo per assottigliare la distanza tra artista e pubblico, come dichiarazione d’intenti e di poetica: la poetica scandalosa della Txakurra che si muove tra scena underground e fama, illegalità e brama di denaro.
In Toys la situazione narrativa di partenza è già esemplare: mentre è in strada a dipingere, la triade scopre attraverso una misteriosa figura che consegna loro una videocassetta che qualcuno sta rubando i loro muri per trasportarli su tela e metterli in commercio. Un atto di ribellione può trasformarsi in denaro, scandalizzare l’arte borghese (far gli scemi) può dar profitto: è questa la cruciale contraddizione di cui i Canemorto si rendono conto e che allo stesso tempo irridono attraverso due canzoni rap: «scemi abbiamo assegni, non più monete | siamo famous, ci staccano i pezzi dalla parete».
Lo stesso tipo di comunicazione accompagna Golden Age, dove il collettivo decide di spendere il budget della produzione della mostra per registrare un disco rap, nella convinzione di guadagnare più soldi. Cosa che effettivamente avviene, perché Golden Age oltre a essere una mostra e un cortometraggio, è pure un LP coprodotto con Angelino. Se quindi la rivolta e la violenza verso autorità e istituzioni artistiche si esprimono dapprima in strada attraverso murales brutalisti, poi in galleria dentro ai tratti e alle forme da art brut, nei film (che sono anzitutto mezzo per imbastire una campagna comunicativa accattivante ed efficace) i Canemorto mettono in scena, sempre in maniera sghemba e anticonvenzionale, il processo produttivo che si cela dietro alle gallerie, le relazioni di potere e denaro connaturate al mondo dell’arte: elaborano ogni volta una narrazione di decostruzione irrisoria necessaria per inquadrare il loro lavoro artistico e il loro universo finzionale, al di fuori di ogni morale.
La Trilogia si chiude con un aggancio esplicito alla tradizione, un tributo alla tecnica en plein air di Monet, Renoir, Cezanne e Van Gogh, artisti che del resto hanno portato l’arte in strada con i tubetti di stagno morbido e i cavalletti. Nel film l’omaggio si traduce in una cronaca televisiva di un concorso di pittura paesaggistica, che i Canemorto prima si impegnano quasi a boicottare e poi vincono, per davvero: «è il trionfo della buona pittura, imparate o rosicate, Canemorto sul posto». In questo caso dove la mostra riprende e sovverte la pittura classica en plein air attraverso «la pratica del cadavere exquis e il procedere collettivo della musica di oggi» (Antonio Grulli), il film ironizza sardonicamente sulla ricezione contemporanea e provinciale di tale tecnica, nelle sue applicazioni decorative e populiste – oltra a essere, ancora, un modo per sbeffeggiare il rapporto che intercorre tra l’opera d’arte e il suo valore economico: il premio in denaro viene infatti scialacquato in una notte. Ma En plein air si diverte anche a smontare l’estetica del documentario biografico sull’artista e le movenze dei programmi televisivi tematici di infima categoria. Il programma perde presto la sua finalità davanti alla Txakurra e il regista viene assoldato dal trio per inseguire i suoi gesti terroristici, per filmare un altro pezzo di mitologia antireligiosa.
In un mercato votato a pallide copie e conformismi, i Canemorto continuano a imbrattare il paesaggio, a restare fedeli alla strada, a giocare con il segno di valore inscritto in ogni oggetto artistico e a portare avanti una poetica multiforme ed estesa, sabotaggio vandalico a ogni forma d’arte, a ogni linguaggio. La Txakurra è una minaccia all’ordine pubblico, al dominio dell’arte come maniera e artigianato. E il cinema nelle sue mani distruttive prende la forma di un pamphlet sbruffone, arrogante, cinico, ributtante per il buonsenso. Insomma, quello di cui abbiamo bisogno.
Luca Mannella