Se è vero che la libertà è l’essenza della vita, come è possibile conquistarla in un posto da cui sembra non poterci essere via di uscita?
Nel suo lungometraggio d’esordio Gli oceani sono i veri continenti – film di apertura delle ultime Giornate degli Autori dell’80^ Mostra del Cinema di Venezia – il giovane autore milanese Tommaso Santambrogio ci trasporta in un’atmosfera sospesa che sembra al di fuori del tempo. Al di fuori del tempo, sì, ma non dello spazio, perché l’ambientazione è chiara, definita da un bianco e nero che incanta e allo stesso tempo ferisce lo sguardo: la remota cittadina cubana di San Antonio de los Baños.
I diversi personaggi – i due bambini e amici Frank e Alain, la coppia di giovani teatranti Edith e Alex e l’anziana Milagros – seppur appartenenti a tre diverse generazioni, appaiono tutti intrappolati nella medesima dimensione decadente e fantastica tra dubbi, ostacoli, rassegnazioni e speranze.
In questa intervista il regista ci trasporta con sé nella sua visione del mondo e del cinema, tra poeti dimenticati, separazioni dolorose, natura lussureggiante e paesaggi urbani decadenti.
Come è iniziato il tuo rapporto col cinema?
Dopo un periodo in cui ho fatto il videomaker, scritto come critico su varie testate, svolto degli stage in case di produzione, ho realizzato che occuparmi dell’ambito artistico senza esprimere la mia voce e il mio sguardo non mi bastava più.
Ho deciso di provare a intraprendere una carriera registica, cominciando a lavorare a testa bassa per portare avanti la mia visione, forse con maggiore forza rispetto a quanto avrei potuto fare se avessi studiato cinema. Avendo avuto un percorso parallelo differente, nel momento in cui mi son dedicato a realizzare qualcosa di artistico ho voluto farlo senza compromessi, cercando di metterci davvero tutto me stesso e provando anche a raccontare, esprimere in tutto e per tutto quello che sentivo urgente e necessario.
Gli oceani sono i veri continenti è stato preceduto dal cortometraggio omonimo presentato alla Settimana della Critica del Festival di Venezia nel 2019. Come mai hai deciso di riprendere quel lavoro?
In realtà il progetto era pensato come un lungometraggio fin dall’inizio. Quando sono andato a Cuba nel 2019 per studiare alla scuola di cinema, avevo già l’idea di voler realizzare un mosaico umano in cui confluissero tre storie che ricreassero le tre età della vita in un contesto di provincia dell’entroterra cubano.
Una volta che ho trovato le persone su cui basare effettivamente le storie che avevo in mente e ho iniziato a strutturare il film, non ho avuto il tempo sufficiente per approfondirle come era giusto fare. Nel corto ho raccontato solo la storia della giovane coppia di attori composta da Alexander ed Edith, due miei amici con cui avevo passato diverso tempo e che conoscevo meglio.
Poi negli anni ho espanso e indagato maggiormente le altre storie, in modo da poter portare in scena quello che era il mio progetto iniziale, cioè questo lungometraggio: un trittico che universalizza tematiche come quelle della migrazione e della separazione, e dell’attesa di quest’ultima nel contesto cubano.
Hai detto che Alex ed Edith li conoscevi già. Come è avvenuta la scelta delle altre e degli altri interpreti, che insieme ai primi due hanno tutti conservato i loro nomi reali nel film?
La scelta è avvenuta in maniera molto naturale. Milagros mi è stata presentata da Alexander già nel 2019 e conoscendola, parlando con lei, leggendo le lettere dell’ex marito, sono riuscito a entrare nella sua intimità e nel suo passato, fino a comprendere che doveva essere lei a rappresentare se stessa. È stato un lavoro che confinava molto con la ricerca documentaristica antropologica, nel senso che è stato come rimettere in scena storie e vissuti reali, anche se chiaramente costruendo un arco narrativo di finzione sulle persone coinvolte.
Per la scelta dei bambini, invece, il processo è stato diverso. Fran frequentava la Casa della Cultura dove Alexander dava lezioni di teatro, come si vede nel film, e successivamente tramite un casting durato parecchio tempo abbiamo trovato anche Alain. I due bambini sono diventati subito amici e hanno legato molto.
Poi paradossalmente la storia che viene raccontata nel film è successa davvero in parallelo alle riprese, e Alain infatti ora è negli Stati Uniti. Come del resto è successo a Edith, che è venuta in Italia subito dopo il film. Dunque si può dire che in qualche modo tutto ciò che è stato rappresentato era materiale umano vivo e che toccava direttamente i personaggi coinvolti.
E come hai lavorato con tutti loro?
Per tutte e tre le storie c’è stato un processo registico che a me personalmente ha fatto crescere molto, perché è stato molto diverso e originale per ciascuna di esse.
Con i bambini abbiamo fatto un lavoro soprattutto sullo spazio, sul gioco, sulla dimensione di interazione, di azione e reazione, di ascolto, senza effettivamente seguire uno script. La sceneggiatura c’era, ma si è lavorato molto su far passare ai bambini qual era l’obiettivo delle scene e lasciare grandi margini a loro per improvvisare, per dire quello che pensavano, per essere vivi in scena, che è la cosa più bella. Non avevano battute predefinite, se non magari in alcuni snodi narrativi che dovevano essere esplicitati, come i dialoghi con la madre. Con Milagros è stato un processo più corporale, sull’occupare lo spazio col proprio corpo, sull’azione, sulle movenze, sul cercare di entrare nella sua routine, cadenzando il tempo narrativo della sua storia tramite i movimenti. Il lavoro con Alex ed Edith è stato invece orizzontale, in un dialogo costante da tutti i punti di vista, c’è stato tantissimo scambio alla pari.
Uno degli elementi che ho amato de Gli oceani è che è un film corale. Anche se i tre nuclei umani – i bambini, gli amanti e l’anziana sola – vivono storie parallele che paiono incontrarsi solo alla fine, il film non è affatto individualista, ma vuole far emergere un’unione umana, accomunata dagli stessi sogni e dalle stesse paure.
Questa dimensione corale mi ha aiutato a rappresentare in qualche modo la realtà cubana più genuina, che è anche quella meno influenzata dall’ingerenza turistica o dall’unicità della grande città, come può essere l’Havana. La mia intenzione era proprio rappresentare quasi diversi arti appartenenti allo stesso corpo, cercando di trasmettere questa unità non tramite trucchi drammaturgici e multi trame iperconnesse, che secondo me costringono molto la realtà e vincolano molto la recitazione. Ho voluto lasciare lo spazio a ciascun personaggio di essere se stesso, di ampliare la propria anima nella scena e darle respiro, mantenendo allo stesso tempo dei punti di contatto che permettessero allo spettatore di rendersi conto che quello che sta in scena, il profilmico, è parte di un unico spettacolo teatrale, lo spettacolo della vita cubana.
Cuba del resto ha avuto e ha ancora grossi problemi da tanti punti di vista a livello politico e sociale, per cui era interessante cercare di dare un’unità a queste storie, apparentemente slegate. Slegate come le vite di tante persone che vivono nello stesso posto e che si sfiorano, che hanno dei punti di contatto invisibili. Quindi dal mio punto di vista era importante rappresentare questi lievi punti di contatto, conservando uno spazio e un’apertura come nella vita reale, senza costringere i personaggi ad alternarsi in maniera spasmodica, iperconnessa, ritmata, come fanno certi film di finzione.
Questa coralità si è riflettuta anche nella lavorazione del film insieme alle altre maestranze?
Lo spero. Tra l’altro ci tengo molto che in tutte le presentazioni del film in sala sia sempre presente anche qualcuno che ha lavorato insieme a me: gli attori, il direttore della fotografia (Lorenzo Casadio, ndr), il montatore (Matteo Faccenda, ndr), membri della produzione. Perché se è vero che il regista è quello che “soffre” di più, perché deve seguire tutto il processo di lavorazione dall’inizio alla fine, senza tutte le maestranze e i collaboratori il film nemmeno esisterebbe.
Credo profondamente che il cinema sia un’arte collettiva, e lo amo anche per questo. Io ho uno sguardo che cerco di trasmettere, ma non potrei farlo se non tramite le persone con cui lavoro e collaboro, per cui provo un profondo rispetto. Infatti ci tengo anche a dire che, nonostante ognuno avesse il suo ruolo, è stato proprio il rapporto di amicizia vera e profonda tra tutte le persone che hanno preso parte del film a fare sì che esso prendesse vita, nonostante diversi ostacoli e difficoltà.
A proposito di difficoltà, com’è andata la produzione in un paese come Cuba?
Già girare all’estero, quando produci in Italia, non è facilissimo. Anche se c’era una coproduzione nominale a livello pratico, Cuba è un paese difficilissimo in cui girare per mille ragioni: dall’inflazione, alla disponibilità di beni di prima necessità, fino alle problematiche che si presentano in un sistema che funziona in maniera completamente differente rispetto ai nostri canoni.
Diciamo che è quasi impossibile girare a Cuba, tanto che la maggior parte dei cineasti se n’è andata dall’isola. E i pochi che sono rimasti fanno una estrema fatica anche solo a impostare un lavoro, non solo tanto per gli ostacoli di natura burocratica, ma anche e soprattutto per la difficoltà di approvvigionamento del materiale di base per mettere sù una produzione, come banalmente il cibo e la benzina.
Il titolo del film riprende il verso di un poeta cubano di cui si sono perse le tracce. Ci racconti di più?
Il titolo viene da una poesia molto bella intitolata Toma este final, che mi aveva recitato Alexander la prima volta che sono stato a Cuba. Opera del poeta afrocubano semisconosciuto Paco Myfriend, pseudonimo di Francisco Guzman Rivero, la poesia parla di un addio e di come i veri amori riescano a sopravvivere anche alle distanze più ampie. E in particolare mi aveva colpito molto proprio il verso «los océanos son los verdaderos continentes», tanto da segnarmelo subito sulle note del telefono. Lavorando poi sul corto una volta rientrato in Italia, non riuscivo a trovare un titolo, e mi è tornato in mente quel verso che, nonostante fosse piuttosto lungo, era perfetto per evocare il sentimento del film.
Inoltre mi piaceva l’idea di dare nuova voce a un poeta come Guzman Rivero, che è stato un personaggio marginale nel panorama culturale cubano. Viveva per strada, sembrava un pirata a vedersi, scriveva poesie e le regalava. Aveva anche scritto dei libri ma non voleva venissero pubblicati, o non glieli pubblicavano perché era considerato una persona poco equilibrata. Ora sta avvenendo una sorta di riscoperta nei suoi confronti, come in quelli di Nicolás Guillén Landrián (regista afrocubano a cui Santambrogio si è ispirato, ndr) e di tanti altri personaggi marginali, che sono stati espressione di una Cuba che non è stata raccontata. Quindi diciamo che, oltre alla bellezza del verso, ho scelto di insistere su questo titolo perché secondo me poteva contribuire a raccontare una Cuba diversa, meno stereotipata e meno conosciuta.
Edith, una dei protagonisti, oltre a essere un’attrice è anche una eccezionale marionettista, capacità che le permetterà di uscire finalmente dall’isola, pagando però il prezzo di una dolorosa separazione. Possiamo davvero raggiungere la libertà e spezzare i fili del destino smettendo di essere le marionette di noi stessi?
Smettere di essere le marionette di noi stessi… Bella domanda. Tutti noi spesso proviamo a “marionettare” la nostra esistenza, a incanalarla, ma non ci riusciamo quasi mai. Sicuramente ciò che secondo me è la sfida più grande da affrontare è tentare di capire chi si è, tramite cosa ci fa star bene, e cercare di entrare in armonia e in dialogo con quello che ci circonda, con quello che è il nostro mondo. È un percorso in divenire, che dipende dagli incontri che si fanno, dalle persone con cui si sceglie di passare il tempo, dai luoghi con cui si decide di dialogare, dalle culture che ci capita di incontrare, e quindi l’identità è una ricerca costante.
In questo senso le storie di tutti i personaggi del film dialogano proprio sull’identità, riflettono sulla libertà e su cosa significhi davvero essere se stessi. Soprattutto in un contesto di regime come quello di Cuba, il valore della libertà è qualcosa di fondamentale e per niente scontato.
Penso che parte della mia ricerca artistica sia aperta proprio su questo, su cosa significhi essere liberi ed essere se stessi. Edith e Alex si riconciliano solo nel momento in cui accettano la vera identità l’uno dell’altra, nel pieno rispetto delle proprie inclinazioni e dei propri desideri, anche a costo di una dolorosa separazione.
Zoe Ambra Innocenti