Re Granchio e altre storie | Intervista a Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi

Re Granchio e altre storie | Intervista a Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi

Ho sognato che solcavamo i mari. Ho provato una gran pena per me, per te, per tutti quanti.

La visione di Re Granchio al cinema è un’esperienza vicina al sogno: nel buio della sala si rimane ammaliati dai suoni della natura e dalle immagini simili a quelle di un dipinto, immergendosi in un’avventura fantastica che, in realtà, è ispirata a una storia vera e ai tanti racconti che ne sono derivati nel corso del tempo. Al centro del film sta la narrazione della vicenda di Luciano, personaggio eccentrico e incompreso che vive due vite: da un paesino della Tuscia, governato da un ingeneroso principe e dove è l’unico borghese tra i contadini e i pastori che lo abitano, arriverà fino in Patagonia per trovare un tesoro e fuggire dalla perdita del suo amore, per cui prova un forte senso di colpa.

Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs a Cannes nel 2021 e al Torino Film Festival lo scorso dicembre, Re Granchio è opera di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, amici fin dall’infanzia e uniti da un sodalizio artistico che li ha portati a realizzare anche i due documentari Belva Nera (2013) e Il solengo (2015). Tutte e tre le opere si basano sui racconti orali dei vecchi di Vejano, paesino immerso nei boschi del viterbese, che si riuniscono nella casina di caccia del signor Ercolino. Dalla leggenda della pantera nera avvistata nei dintorni del paese, alla storia del solitario Mario “di Marcella” che ha abitato sessant’anni in una grotta, fino all’avventurosa vicenda di Luciano, i due registi hanno riportato alla luce racconti che altrimenti sarebbero rimasti sconosciuti.

Nei loro film il confine tra reale e immaginario è labile e confuso, come ingarbugliate e contraddittorie sono le stesse storie orali che, tramandate di generazione in generazione, cambiano sempre e continuano ad arricchirsi di dettagli che le rendono ancor più affascinanti.

Ho fatto una chiacchierata con Alessio (da Buenos Aires!) e Matteo (da Roma) che mi hanno raccontato altre storie sulle loro opere e in particolare su Re Granchio, memori delle loro avventure tra la natura selvaggia laziale e le brulle e inesplorate lande argentine.

Come siete arrivati alla realizzazione della trilogia?

A. R.d.R.: È stato un percorso in divenire, non avevamo pensato fin da subito a una trilogia. Ognuno di noi aveva fatto dei cortometraggi per conto proprio, finché Matteo non ha avuto l’idea di fare un film sulla leggenda della pantera (su cui si basa Belva Nera ndr) e mi ha portato in questa casina di caccia vicino a Vejano, nel viterbese, a conoscere Ercolino, da dove tutto è iniziato e da dove sono nate le storie che abbiamo raccontato nei nostri film.

M. Z.: Mentre stavamo girando Belva Nera, durante una pausa pranzo nella casina con tutti i cacciatori riuniti intorno al tavolo, abbiamo sentito la storia di Mario “di Marcella” (epiteto che deriva dal nome della madre di questo personaggio ndr), da cui abbiamo tratto Il solengo. Quindi nel secondo film abbiamo cercato di riprodurre quel pranzo, mantenendo proprio le stesse posizioni che i personaggi avevano quel giorno. Infatti il film si struttura in una conversazione tra di loro e di interviste fatte ai singoli. Infine da questo film è nato Re Granchio, che si ispira alla vicenda di Luciano, personaggio realmente vissuto a Vejano alla fine dell’Ottocento. C’erano dettagli confusi sulla sua storia, uno dei quali tra l’altro diceva che fosse il padre del padre del suddetto Mario “di Marcella”.

È stata proprio questa “confusione”, tipica delle storie orali, che vi ha permesso poi di aggiungere vostri elementi “di finzione” nella storia di Luciano? Avete arricchito in qualche modo il racconto? 

A. R.d.R: È una delle cose che ci affascina di più: come dalle contraddizioni, dagli elementi del racconto che non coincidono, possano venire fuori storie diverse, dettagli nuovi. Fino ad arrivare a Luciano nella Terra del Fuoco che deve seguire un granchio per trovare un tesoro.

M. Z.: Ne Il solengo il tema che cercavamo di perseguire era la verità, costruendo e decostruendo la storia attraverso i racconti e le contraddizioni che venivano fuori. Però ci siamo accorti che la verità non era poi così importante nemmeno in quel film. Piuttosto i vejanesi stessi mistificavano il personaggio. In Re Granchio invece eravamo interessati alla trasmissibilità del racconto, quindi all’oralità, e alla memoria. Infatti le varie testimonianze sulla storia di Luciano portavano tutte in Argentina, ma lì la memoria è venuta meno perché nessuno di loro c’era stato. Noi ci siamo andati e abbiamo iniziato lì la seconda parte del film, che poi si è mescolata con tutta una serie di racconti locali, con la letteratura, con le storie che abbiamo intercettato laggiù. Eravamo soprattutto interessati a dimostrare come una storia che viene raccontata attraverso le parole in una parte del mondo, portandola in un altro luogo si trasformi in qualcosa di nuovo, perché si allaccia con altre storie ancora e si interseca con nuovi elementi: che questo poi è il processo per cui si forma una leggenda.

La vostra intera opera si basa su storie e leggende popolari tramandate oralmente, di cui l’Italia è piena. Pare che il cinema nostrano però sottovaluti questo tipo di narrazioni, nonostante la loro ricchezza (anche se possiamo trovare un’altra eccezione nel recentissimo Piccolo Corpo di Laura Samani). Avete considerato questo aspetto quando avete scritto Re Granchio?

M. Z.: No, abbiamo riportato solo ciò che ci interessava, non abbiamo proprio pensato a cosa ci fosse o non ci fosse già nel panorama cinematografico italiano. Ognuna delle tre storie ci aveva colpito in un certo modo. Nei primi due film abbiamo scelto di fare dei documentari perché avevamo molti elementi con cui potevamo giocare. Invece per Re Granchio gli elementi venivano meno, erano pochissimi, persi nel tempo, visto che la storia era talmente vecchia che mancavano proprio i dettagli, e quindi abbiamo dovuto aggiungerne. Perciò è venuto naturale in questo caso fare un film di finzione.
Infatti a un certo punto ci siamo ritrovati a immaginare le persone di Vejano sempre di più come personaggi di finzione, iniziavamo a fantasticare sperando di vederli vestiti da personaggi.

A. R.d.R.: Già ne Il solengo succedeva questo: Matteo apriva l’armadio di Ercolino e sceglieva vestiti che lui non indossava mai e la stessa cosa faceva anche con gli altri. Quindi c’è sempre stata quell’intenzione di trasformarli in dei personaggi, di non riportare necessariamente il reale, ma di giocare anche con la finzione.

Quindi i personaggi di Re Granchio sono tutti abitanti di Vejano? Non ci sono attori professionisti?

A. R.d.R: Re Granchio è diviso in due parti: la prima in Italia, a Vejano e dintorni, e la seconda in Argentina. Nella prima non ci sono attori professionisti, salvo la protagonista femminile Alexandra Lungu, che aveva già recitato ne Le Meraviglie di Alice Rohrwacher. Per il resto sono tutti amici e gente che abbiamo conosciuto lì in paese.

M. Z.: Il protagonista che interpreta Luciano è Gabriele Silli, un artista romano, che era alla sua prima esperienza attoriale. Nella seconda parte in Argentina, invece, ci sono tre attori professionisti a interpretare i tre pirati con cui Luciano va in cerca del tesoro.

A. R.d.R: In realtà inizialmente avevamo scelto un altro attore per interpretare il ruolo del pirata che libera Luciano e scappa con lui verso la fine del film. Doveva infatti essere un omone grande, con una voce profonda. Però questa persona ha avuto dei problemi di salute proprio poco prima dell’inizio delle riprese e quindi ha dovuto rinunciare, anche perché i luoghi dove giravamo nella Terra del Fuoco erano piuttosto estremi e ciò richiedeva un certo sforzo fisico. Così abbiamo fatto un casting enorme, finché Matteo mi ha detto “ma ti ricordi quell’attore che si mangia un pezzetto di foca nella prima scena di Jauja di Lisandro Alonso? Chiamiamo lui!”. Così abbiamo chiamato Lisandro, che conosciamo, e lui ci ha messo in contatto con Mariano Arce, che è venuto con noi e ha interpretato il ruolo, pur essendo tutt’altro che un gigante dalla voce profonda, bensì un ometto dalla voce acuta.

M. Z.: Infatti aveva una gestualità che ci ricordava i nostri “attori” di Vejano e quindi poi si è rivelato perfetto, anche in relazione a Gabriele.

E com’è stato lavorare con Gabriele Silli? Che sembra tutt’altro che un non-attore.

M. Z.: Gabriele Silli ha vissuto alcuni mesi a Vejano per immergersi nella quotidianità e nell’atmosfera del luogo. Anche se noi volevamo che rimanesse un outsider, perché nella storia che avevamo pensato noi lui era un borghese, quindi dissimile sia dai contadini del villaggio sia dal principe che lo governava. Aveva talmente assimilato il personaggio che era arrivato a farsi chiamare Luciano, è diventato Luciano a tutti gli effetti. In vista delle riprese in Argentina gli abbiamo fatto prendere delle lezioni di spagnolo alcuni mesi prima, uno spagnolo che poi abbiamo dovuto adattare un po’ a quello che si parla in Argentina.
In generale, è stato veramente bravissimo.

In tutti i vostri film, poi, è evidentissimo il legame tra animali, uomo e ambiente. Tuttavia dalla vostra narrazione non si percepisce alcun giudizio, pare che tutto risponda a un ordine naturale. Non ci sono buoni e cattivi.

A. R.d.R.: Eravamo molto interessati al rapporto tra uomo, natura e animali, e infatti nel rappresentarlo non abbiamo inserito alcun giudizio, proprio perché volevamo mostrarlo così com’è, in luoghi selvaggi come quelli della Tuscia, dove sembra che il tempo non sia passato e che ancora sia rimasto quel forte legame tra l’uomo e l’ambiente.

M. Z.: Se in Belva Nera e Il solengo gli animali di riferimento sono stati la pantera e il cinghiale, creature che in qualche modo erano coerenti col territorio vuoi per leggenda vuoi per un ordine naturale, in Re Granchio abbiamo ripreso alcune novelle e leggende che abbiamo sentito in Argentina, ispirandoci al realismo magico: il granchio è un animale magico, legato alla storia della ricerca dell’oro in quelle terre.

Nei vostri film l’elemento sonoro è dato soprattutto dai rumori di questa natura, animale e umana, con alcuni inserti musicali. Per esempio, sia in Belva Nera sia in Re Granchio, sentiamo Ercolino che canta la famosissima aria della Tosca di Puccini E lucevan le stelle. Qual è il significato di tutto ciò?

M. Z.: Poi è una canzone triste. Nel film ci sono stati dei cambiamenti e noi invece eravamo affezionati anche a una serie di episodi che erano successi, e riprendere quella canzone era come rievocare un ricordo di tutto quello che avevamo vissuto.

Dai vostri film il viterbese sembra una sorta di selvaggio West italiano: i cacciatori sono i cowboy, che fischiano come nei film di Sergio Leone, inseriti in una natura selvaggia che, seppur rigogliosa a differenza del deserto, può rivelarsi altrettanto rischiosa. Si può dire che vi siate ispirati a questo genere cinematografico? 

M. Z.: La casina di caccia di Ercolino è una sorta di locanda quasi western, in effetti. Quando io e Alessio siamo arrivati lì, apparivano personaggi uno dopo l’altro proprio come in un saloon di un western, andando lì per prendere il caffè, la grappa eccetera. E questa atmosfera è stata poi riportata dentro i film. La casina di caccia “western” alla fine è il filo conduttore di tutta la trilogia: tutte le storie provengono da questa locanda fumosa dove la gente entra ed esce continuamente. In realtà poi era gestita dalla moglie di Ercolino, una donna fortissima che controllava tutti gli uomini e che non voleva mai apparire nei nostri film. Anche se alla fine l’abbiamo convinta a fare una piccola apparizione in Belva Nera.

A. R.d.R.: Sì, la casina è un po’ un miscuglio di cose: aveva già di per sé un’aria western e noi abbiamo assecondato quell’atmosfera.

Re Granchio è stato girato in parte in digitale, in parte in pellicola. Come mai avete fatto questa scelta?

M. Z.: Re Granchio è composto da una cornice moderna con i cacciatori che raccontano la storia di Luciano nella casina, realizzata in digitale, e dal racconto di finzione, che visivamente volevamo rendere con la pellicola. Poi durante le riprese c’è stato un problema concreto: in Argentina non ci sono più laboratori per lo sviluppo della pellicola, quindi avremmo dovuto mandarla in Brasile, negli Stati Uniti o in Italia. Così abbiamo dovuto scegliere un’altra strada, che comunque era conforme ad alcune idee che avevamo per lo sviluppo dell’immagine: abbiamo utilizzato una cinepresa digitale 35 mm anziché 16 mm, per rendere ancora meglio quei paesaggi sconfinati in cui Luciano sembra perdersi. Siamo invece riusciti a utilizzare la pellicola per le riprese esterne in Italia, dove volevamo essere più stretti, più intimi, rappresentando un periodo subito dopo quello estivo, dove la natura è ancora abbastanza rigogliosa.

A. R.d.R.: Noi in realtà abbiamo sempre mischiato i formati, il digitale e l’analogico: da un lato per una passione personale verso la pellicola, dall’altro per assecondare le necessità produttive. Fosse per noi avremmo girato tutto in pellicola 16 mm o 35 mm, chissà. In generale abbiamo cercato di inserire la pellicola in un contesto narrativo ed estetico coerente con l’idea del film.

M. Z.: Infatti la pellicola ha questo aspetto pittorico che per noi era importante rendere nella prima parte di Re Granchio. Poi insieme a Simone D’Arcangelo, il nostro direttore della fotografia, avevamo già l’idea di utilizzare il digitale nelle scene d’interno, perché se avessimo girato con pellicola 16 mm avremmo avuto bisogno di tantissima luce e sarebbe stato molto complicato.

In Re Granchio quali sono stati gli ostacoli logistici e produttivi, considerando che avete girato parte del film in un luogo remotissimo come la Terra del Fuoco?

A. R.d.R.: Le riprese in Argentina sono state molto avventurose e abbiamo avuto varie difficoltà, soprattutto a livello logistico. Lì si trovano paesaggi molto diversi anche a relativamente pochi chilometri di distanza, però gli spostamenti e le riprese sono stati difficili, sia per l’ambiente sia per le condizioni meteorologiche e le temperature proibitive (girare a -6 gradi con un vento che ti fa volare via non è proprio agevole). Abbiamo anche convinto la produzione a fare le riprese aeree con l’elicottero anziché col drone, che era proprio quello che volevamo.

M. Z.: Sì, le riprese fatte con l’elicottero permettono di avere delle immagini che rendono davvero giustizia a paesaggi come quelli, cosa che col drone non è possibile.

Com’è andata la distribuzione di Re Granchio? E quali sono i vostri prossimi progetti?

A. R.d.R.: Dopo Cannes, Annecy (dove il film ha vinto l’ultima edizione del Festival Annecy Cinéma Italien ndr) e Torino, abbiamo fatto un tour un po’ in tutta Italia per presentare Re Granchio, e devo dire che per me i momenti di incontro e confronto con il pubblico sono sempre bellissimi. Ora, oltre a continuare a portare il film in giro per l’Italia, è appena iniziata la distribuzione in Argentina e in Francia.

M. Z.: E a breve verrà distribuito anche negli Stati Uniti e in Cina!

A. R.d.R: Il nostro prossimo progetto, invece, di cui stiamo ancora scrivendo la sceneggiatura, è  proprio un western, sempre ambientato negli stessi territori in cui abbiamo girato i tre film precedenti.

Zoe Ambra Innocenti

P. S. Nell’attesa di ritrovare Re Granchio presto in sala, se intanto siete curiosə di vedere il tanto nominato Ercolino, i suoi compari e la casina di caccia, andate subito a vedere Belva Nera gratuitamente qui.