Michela Marella è un’elettricista di set e una light designer: monta i fari e provvede all’illuminazione del set cinematografico. Ha sentito parlare di altre donne in Italia che fanno il suo stesso mestiere ma non le ha mai conosciute.
Quando ho conosciuto Michela nel vecchio spazio di Kinodromo, il Loft, e ho scoperto che lavoro facesse, ho iniziato a immaginare quale potesse essere la sua storia, chiedendomi quante ne avesse passate per affermarsi nella propria professione in un ambiente quasi totalmente maschile.
Conoscendola ho scoperto che non era esattamente come pensassi, e che la Questione era meno Spinosa del previsto.
Quante donne hai conosciuto che fanno la tua stessa professione?
Al cinema pochissime. Una sola che fa il macchinista, poi so che ce ne sono delle altre: un’elettricista in Toscana e una macchinista veneta, ma non le ho mai conosciute. Quella che ho conosciuto ha più o meno la mia età. Non so se all’estero sia diverso, io lavoro nel contesto italiano o mi sposto con produzioni provenienti da questo Paese. Non ce ne sono molte perché solo negli ultimi anni si è riusciti ad alleggerire il peso delle luci. Con i led si hanno luci con volume e peso ridotti, quindi a differenza di un paio di decenni fa oggi non serve più la prestanza fisica.
Si tratta quindi solo di una questione di forza fisica?
Sì, una questione di fisicità più che altro: vedere una figura maschile in questo determinato ruolo diventa abitudine. Lavoro però anche a teatro, dove è normale che ci siano tecniche donne. Nell’ambiente del cinema la prima volta che lavori tutti fanno una battuta: c’è chi dice “Ah, dai!?”, chi è interessato a sapere come sia successo, quello che guarda male e ride… Ho visto qualsiasi tipo di reazione, ma credo che la peggiore sia la risata che sottintende “Ah, questa me la voglio proprio vedere”. Io non sono una persona battagliera, cerco di fregarmene. All’inizio ci rimanevo male perché cercavo il mio valore negli occhi degli altri. Poi mi sono formata e ho imparato a essere sicura di me grazie alle cose che so e a cosa posso e non posso dare.
Come sei diventata elettricista?
Io volevo fare montaggio, però sono un animale sociale e avevo bisogno del set. A quel punto mi sono indirizzata verso l’aiuto regia e ho pensato di lavorare in ogni reparto per capirli tutti e saperli gestire dal punto di vista organizzativo, partecipando in ogni ruolo a piccole produzioni. Ho provato ogni ambito, tranne trucco, parrucco e costumi che sento lontani da me, e poi sono arrivata alle luci. Mi è piaciuto tantissimo e lì mi sono fermata. Ho sempre avuto una predisposizione manuale, costruivocose con il fil di ferro e la pinza. Poi ho fatto il liceo scientifico e il Dams cinema. Anche se l’aiuto regia mi appartiene perché mi piace la logistica, la manualità mi stimola e soddisfa il mio piacere e bisogno di lavorare con le mani. La prima volta che ho fatto il tecnico avevo 25 anni e avevo già avuto esperienza di un paio di anni di set. Il mio primo lavoro da sola non me lo ricordo, è assurda questa cosa. [ride] Forse era uno spot.
Sei stata l’assistente di qualcuno?
Primo su tutti di Davide Sorlini, ma anche di altri. Ho da sempre avuto la consapevolezza che se hai tanti insegnanti diventi un professionista completo e poi puoi arrivare a trovare un tuo modo personale.
Sono diventata amica delle persone con cui ho lavorato nel corso del tempo. Erano professionisti che già si erano fatti un nome, e a Bologna funziona che se si conosce qualcuno lo si chiama. All’inizio della mia carriera le luci erano ancora molto pesanti e a volte preferivano un professionista uomo, poi qualcosa è cambiato. In ogni caso la velocità è importantissima sul set, più ti conosci più lavori velocemente, ma a lavorare sempre con le stesse persone si rischia di fossilizzarsi… e poi “le idee non sono mele, che se io ne ho una e la do a te diventa tua”: l’arricchimento sta nel rapportarsi con persone diverse e condividere.
Hai anche studiato la teoria?
Ho fatto un corso sugli impianti elettrici civili e industriali per capire cosa c’era dietro alla presa di corrente, capire come gestire il carico elettrico e avere più competenza. Non viene richiesta qualche forma di certificazione o patentino in particolare per fare questo lavoro [sembra quasi imbarazzata perché io la guardo incuriosita]. Dopo quel corso sono capace di mettere le mani sull’impianto di una casa anche se non potrei firmarlo, e posso quindi dire di saper gestire delle dinamiche complicate sul set. Il set non è un luogo ad accesso pubblico, e al massimo se c’è qualcosa che non va salta la corrente. Se poi si gira in location private è tutto sicuro. [si giustifica e io tiro un sospiro di sollievo]
Un ricordo bello e uno brutto?
Non lo so, così a bruciapelo ne ho tanti e vado un po’ in palla. Ricordo più le emozioni, quelle di quando mi sono sentita rassicurata più che altro. Quando si instaura quella magia con un nuovo macchinista o un nuovo direttore della fotografia, ci si capisce, si trova un modo comune e tutto gira alla perfezione.
Ti sembra di avere qualche capacità che altri non hanno?
Quello che mi dicono spesso è che ho una cura e un’attenzione particolari, ma secondo me non si tratta di caratteristiche femminili, non è quello. Non esiste femminile o maschile nell’approccio, solo nelle difficoltà fisiche. È infatti successo che qualcuno mi escludesse perché non sarei riuscita a fare qualche lavoro di forza, ma sul set sono anche stata coperta dalla mia squadra. All’inizio si è un po’ inconsapevoli, ti lanci, poi un paio di volte mi sono bloccata con la schiena e ho capito quale fosse il limite.
Hai mai modificato te stessa per essere accettata dal gruppo, magari adottando un atteggiamento un po’ goliardico per inserirti in una squadra maschile?
Io tendo a starne fuori, se non mi trovo in una squadra vuol dire che il lavoro verrà comunque portato a casa ma qualcosa non funziona e non funzionerebbe nemmeno forzarlo, quindi lascio correre e resto all’esterno. Ho capito cosa intendi, esistono squadre con dinamiche da spogliatoio, sono modalità loro che a volte mi diverto anche a osservare perché può essere che siano anche “colore” e non solo bruttura. Alcune battute non le noto più, alcuni si accorgono della mia presenza e mi chiedono scusa. A volte la spacconata maschile scarica, crea atmosfera e aiuta a distendere il lavoro, non si tratta sempre di manifestazioni becere.
Quali sono le differenze tra teatro e cinema? Quale preferisci?
Mi piacciono entrambi allo stesso modo, sono diversi. Il teatro ha ritmi diversi, dilatati, per cui si sta tantissime ore al lavoro. Il tecnico del teatro è interno e interagisce con quello che segue la compagnia in tournée. La magia del teatro è l’emozione del live, del qui e adesso, e quella di conoscere uno spettacolo e vederlo svolgersi ogni volta nuovo in un posto diverso. Il cinema invece è finzione, la magia di essere in un luogo e far finta che sia un altro, magari di essere in un’altra epoca. Nel teatro secondo me la presenza femminile si è affermata prima. I fari sono meno grandi, e comunque si monta tutto una volta sola e lo fa la squadra, nel cinema invece c’è un montare e smontare di continuo. Ci sarebbero poi delle regole per cui uomini e donne dovrebbero sollevare solo un tot di kg, ma la sforano tutti. In ogni caso, la ferraglia vera e pesante è quella dei macchinisti, ma mi sono trovata a fare anche quello su set piccoli in cui mi occupavo di tutto da sola ed ero “il capo tecnico di me stessa”.
Come si costruiscono le luci di una scena?
Te la faccio molto semplice: sul set parli con il direttore della fotografia (di seguito DOP) che decide che luci mettere, leggi la sceneggiatura, vai a fare i sopralluoghi, senti l’idea del DOP in quelle location, fai la lista delle teste – i fari – che servono, capisci dove attaccarli e fai il calcolo del carico per capire se servono generatori, allacci extra, poi con il macchinista decidi dove appenderle. Durante le riprese devi cambiare le gelatine per garantire la continuità fotografica anche in caso di ribaltamento di campo, organizzare le tempistiche, saper dire quanto si impiega a preparare una scena. Sei il braccio del DOP.
In teatro c’è la preparazione che è un work in progress continuo di mesi per illuminare ogni scena di uno spettacolo. A teatro e al cinema la luce trasmette emozioni: l’ho imparato in un corso che ho fatto ad Avignone ed è la cosa che più mi entusiasma in questo lavoro di light design. A teatro le luci fanno montaggio, sono punteggiatura, collegano tra di loro le scene, creano simbolismo, determinano il patto finzionale tra spettatore e attori. Non posso scegliere cosa mi piaccia di più tra i due, sono troppo diversi!
Lavoro e vita privata: uno ha mai danneggiato l’altro?
Ho lavorato in un teatro che era anche compagnia, mi toglieva così tanto tempo da risucchiarmi le energie e modificare le tue abitudini, rischiavo di perdere delle amicizie. Ho bisogno del lavoro, ma non sono una persona che si butta in quello e in nient’altro. Poi si tratta sempre di progetti a tempo determinato, set e spettacoli iniziano e finiscono e nessuno può porti veramente delle limitazioni, che ti trovi bene o male il set finisce. Non ho un particolare desiderio di maternità e non mi sono mai dovuta porre il problema, ma credo si tratterebbe di una scelta di tempo interna alla coppia, non una condizione del lavoro. Vedo padri che fanno cose incredibili per stare la domenica con i figli, andandosene dal set e tornando. Spesso però le madri sui set ancora ricoprono ruoli più organizzativi che tecnici, fanno lavori di ufficio. Altrimenti bisogna portare la babysitter che sta in albergo e si prende cura dei bambini. Mi sembra però che si inizino ad avvicinare le diversità, e si cominci a essere più consapevoli.
Cosa pensi dei progetti in cui vengono inserite maestranze femminili solo per beneficiare di fondi pubblici e sovvenzioni?
Sul lavoro non mi piace la logica delle “quote rosa” o “la chiamo perché è donna”. Per me ci sono solo persone più o meno giuste per un lavoro, poi spero che per la stessa logica qualcuno non venga escluso.
…e durante i periodi di lockdown?
I set sono andati avanti, ma ne ho fatti pochi, nell’ultimo periodo sono concentrata sul teatro. Poi durante il lockdown ho finito i mobili di casa mia, ho fatto lavori per amici che mi chiedevano di aggiustare una presa, una plafoniera… ma ho anche cominciato a lavorare all’uncinetto, produco pupazzetti.
Mi avevi raccontato quella storia divertente su te e il tuo ragazzo…
Non ci siamo conosciuti sul set, mi ha abbordata dicendo che a casa aveva due seghe circolari e se volevo me ne regalava una. Alla fine ci siamo conosciuti nell’ambiente ma non sul set, faceva l’insegnante di recitazione e io il tecnico.
C’è ancora qualcosa, che avevi pensato di dirmi?
Io non sono brava a raccontare aneddoti, magari sarebbero anche interessanti ma io non so raccontarli [ride] Una volta però ho perso la pazienza con un DOP francese…
Maddalena Bianchi