Rosa Rosà, la viennese che portò la “donna del domani” nel Futurismo 

Rosa Rosà, la viennese che portò la “donna del domani” nel Futurismo 

 

Dal ritratto della super-donna futurista nel romanzo “Una donna con tre anime” all’elogio dell’adulterio in “Non c’è che te”, fino al lavoro di illustratrice e disegnatrice

di Beatrice Fagan

Sono alleggerita totalmente dai torbidi pesi umani,
aeronave astratta filante verso tinte ignote al prisma dei colori spettrali

Introduzione

Rosa Rosà è una perla, un piccolo pianeta opalescente al centro di una tavola imbandita di oggetti squadrati e geometrici. Artista e donna d’avanguardia del periodo futurista, a lei si deve l’aver delineato, con una modernità quasi aliena, la “donna del domani”. Ribellandosi alle rigidità delle convenzioni di classe e di genere, Rosà rifiutò anche, per tutta la vita, di essere definita una “femminista”, ritenendo le etichette nient’altro che feroci repressioni della facoltà più sacra dell’individuo: l’evoluzione. 

L’interesse per questo personaggio nasce dal forte contrasto tra la sua opera e la corrente artistica in cui assunse notorietà, il Futurismo. Cristallizzato nella memoria collettiva come un movimento creato dall’uomo per l’uomo, “officina intellettuale” dei dogmi del regime fascista, nell’avanguardia di Marinetti parole-chiave come aggressività, violenza e temerarietà aleggiano come talismani per annunciare l’apparizione di militarismo, guerra e industria. 

Per questo motivo, è sorprendente scoprire quanto in realtà il movimento contenesse in grembo dei fermenti molto più eterogenei, con una declinazione femminile ben precisa, che trovò spazio sia nell’arte che nel dibattito sociale, talvolta in completa contrapposizione alle posizioni maschili. Laddove i futuristi del Manifesto inneggiavano a una violenta presa d’assalto delle “forze ignote”, Rosa Rosà riconobbe nell’occulto la matrice profonda di un autentico processo creativo e artistico, accessibile solo a una creatura così naturalmente misteriosa e mistica come la donna.

La biografia di Rosa Rosà è una storia che assume i tratti di esplorazioni profonde, dove una natura eternamente mutevole e curiosa la rese sempre sfuggente a qualsiasi costume, innalzandola a una perpetua ricerca di quelli che lei chiamava i “valori astratti”. Nella vita affascinante di questa donna complessa, arte, spiritualità e letteratura si intrecciano in un percorso scandito dalle note invisibili di un eterno richiamo esistenziale. 

Le origini

Rosa Rosà nacque a Vienna nel 1884 col nome di Edith von Haynau, dal Barone Ernst von Haynau e l’ereditiera Henriette Mautner von Markhof, entrambi discendenti dell’aristocrazia asburgica ottocentesca. Grazie alle sue origini privilegiate, la giovane Haynau crebbe beneficiando di una variegata istruzione domestica, impartita da precettori privati che la educarono alle arti e alle materie tradizionali. All’età di diciassette anni si iscrisse contro il parere dei genitori alla scuola d’arte Wiener Kunstschule für Frauen und Mädchen di Vienna, ribellandosi alle rigide imposizioni familiari e “di classe”, il cui rifiuto divenne per lei il primo e imprescindibile passo per qualsiasi autodeterminazione.   

Non solo in termini identitari, la permanenza a Vienna fu una tappa fondamentale per la formazione artistica e intellettuale di Rosà. Mentre elementi di espressionismo, secessione e art nouveau, convergevano nella città e contaminavano il suo stile, un dialogo incessante e prolifico di progresso tra intellettuali e artisti favoriva un consolidamento culturale unico a cui lei stessa poté attingere e che ebbe il potere di plasmare la sua mentalità.

Nel 1907, in un viaggio verso Capo Nord, conobbe a bordo di una nave da crociera Ulrico Arnaldi, scrittore e giornalista italiano che divenne l’anno seguente suo marito. Lasciata Vienna e trasferitasi a Roma, Edith, ormai Arnaldi, condusse fino al 1915 una vita dedicata alla famiglia e ai suoi quattro figli. Una volta che il marito partì per la Grande Guerra, la personalità dell’artista vibrò nuovamente aprendosi a una nuova fase. 

La metamorfosi in Rosa Rosà e il Futurismo

Come scrisse nel suo articolo-manifesto “Le donne del posdomani” (1917), la dipartita dei mariti al fronte rappresentò per le donne l’occasione di essere temprate dalla “grandiosità del tempo”. In un periodo di grandi trasformazioni, dove le guerre e gli ideali mutavano i confini delle nazioni e degli imperi – per lei prodotto di logiche maschili – nella penombra degli ambienti casalinghi, nelle case vuote e polverose dei borghesi, una profonda metamorfosi femminile “sessuale, erotica, psicologica” prendeva forma. In questo contesto, Edith von Haynau irrompe nel panorama artistico italiano, sotto il nome di Rosa Rosà, artista visionaria, disegnatrice e letterata dell’avanguardia futurista. 

Alle prime opere di Rosà viene riconosciuta una chiara influenza della componente magico-occultista che gravitava attorno alla rivista L’Italia futurista, nata il primo giugno 1916 da Emilio Settimelli e Bruno Corra. Nuovi concetti introdotti dalla filosofia e dalla psicanalisi, come Io, Psiche e Coscienza, di portata così visceralmente esistenziale, ispirarono l’artista, producendo visioni ove il cervello diventava “un terzo occhio spalancato sul mondo, oltre i limiti della materia”. 

Nel suo scritto Mascherate futuriste (1917), Settimelli descrive la sua mente come “la camera specchiata di un fotografo”, i cui angoli, invece che punti ciechi, nascondono una capacità moltiplicatrice e riflettente. Così, sotto la guida di Rosa Rosà, la mente dei futuristi divenne un luogo ove si slega un labirintico percorso creativo, che assume le forme di un’immersione profonda e allucinatoria popolata di simboli e sentieri inconsci. 

Il romanzo sulla “Eva del futuro”

Nell’ambito di una discussione con F. T. Marinetti a proposito del suo Come si seducono le donne (1916), Rosa Rosà concepì l’idea di scrivere un romanzo sulla “Eva del futuro” e decostruire la visione maschilista della femme fatale, seduttrice dell’uomo e pregna di sentimentalismo, per sottolineare l’identità primaria della donna, creatura portatrice di una “psiche cosmica” capace di penetrare i limiti e le distanze ed entrare in contatto con un’energia pura. 

Pubblicato nel 1918, il romanzo Una donna con tre anime narra le vicende della vita di Giorgina Rossi. Sposata a un uomo medio e poco interessante, Umberto Rossi, i tratti fisici di Giorgina riflettono la sua vita borghese di insapore mediocrità. Con due occhi inespressivi, una scialba intelligenza e un corpo sobrio e privo di erotismo, Rosà attribuisce alla protagonista quella “polverosità” che affligge la condizione esistenziale della donna borghese del tempo. Attraverso gli avvenimenti narrati nel romanzo, il lettore è testimone dell’insorgere di una nuova personalità in Giorgina, che caratterizza la super-donna “futurista”. 

La trasformazione avviene a seguito di un incidente elettromagnetico causato dai tre scienziati Dott. Ix, Ipsilon e Igreca. Respirando per caso dei “frammenti astrali”, Giorgina intercetta l’essenza della donna futura e si trasforma, anzi, si moltiplica, in una creatura elevatissima, libera e paranormale, che incarna in tre differenti stadi gli archetipi femminili fondanti della nuova donna: la sonnambula, la veggente e la sacerdotessa. 

A book cover with a drawing on it

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Inizialmente assistiamo allo sgretolamento del criterio morale della protagonista. Giorgina diviene una creatura impulsiva e predatrice, animata da una vitalità nuova, impaziente e istintiva. Seppur con le stesse forme corporee, ella appare diversa e spogliata della sua coscienza borghese. Ritoccandosi il trucco con cipria e rossetto immaginari, esce in strada e, scivolando tra la folla, osserva i volti che la circondano con una nuova euforica curiosità. 

Cammina sui larghi marciapiedi battuti dalla luce brutale delle lampade ad arco, sentendo sempre aumentare dentro di sé la sensazione di leggerezza che traspare dalla franca disinvoltura del nuovo passo e dei nuovi movimenti, e lo spirito di avventure che riempie il suo cervello e i suoi nervi delle più spregiudicate bramosie.”

La monotonia, che prima digeriva quotidianamente con totale indifferenza, d’un tratto l’attanaglia e diviene insopportabile. La realtà di Giorgina muta e diventa un susseguirsi e sovrapporsi di volontà. Al secondo stadio della trasformazione, il suo profilo assume lineamenti più duri e vigorosi. In piedi su una sedia tra i banchi di un mercato, si lancia in una lunga dissertazione sui misteri della materia. Utilizzando termini di estrema precisione scientifica, sembra che nel parlare intercetti altre conoscenze e consapevolezze, o piuttosto reciti le proprie visioni come una veggente. 

Essa si sentiva divenuta il centro di una enorme rete di fluidi e di energie irradianti e distese attraverso spazi infiniti. Si sentiva come rilegata da nervi invisibili e persone ignote e lontane, delle quali mai prima aveva sospettato l’esistenza”. 

Una volta rientrata in casa, Giorgina si siede e scrive una lunga lettera al marito in prosa vestale, parlandogli di amore in termini intrisi di una saggezza che sfiora lo spirituale e il metafisico. La terza anima è quella della sacerdotessa, donna investita di una iper-coscienza che la conduce a una lunga invocazione dell’Infinito, dell’Eternità e dell’Assoluto, condannandola al contempo a un’estrema e siderale solitudine che la fa sentire “un atomo smarrito dolorosamente”.

Nella lettera, Giorgina si interroga sulle forme e il corpo di Umberto Rossi e si chiede se esse esistano veramente o non siano altro che un’allucinazione, un simbolo o un ideale. Ripetutamente si rivolge al suo innamorato dichiarandogli amore in termini che vanno oltre la sensibilità materiale.

“Tu non ci sei, ed io ti amo. Ti amo senza sapere chi sei, né dove sei. Ignoro se sei un corpo, se sei un’anima, oppure se sei semplicemente la proiezione nell’Infinito di tutte le mie bramosie assetate di Irrealtà.”

Ponendosi questo tipo di interrogativi, attraverso il suo personaggio, Rosa Rosà anticipa concetti come l’idealizzazione dell’oggetto amato e la labilità dello stato di coscienza nella condizione di innamoramento. 

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Rosa Rosà, collezione familiare Arnaldi

La critica al matrimonio 

Se in Una donna con tre anime il processo evolutivo della protagonista avviene sotto l’effetto di un’ipnosi paranormale, nel suo secondo romanzo Non c’è che te (1919), l’emancipazione diviene un processo consapevole che passa attraverso la decisione ponderata e razionale del tradimento. Sebbene sia ancora precoce parlare di divorzio, in quell’Italia alto-borghese non era raro che le coppie si separassero pur rimanendo ufficialmente sposate, come scelsero gli stessi Edith e Ulrico Arnaldi.  

Mostrando ancora una volta la modernità della sua visione, nel suo nuovo libro Rosa Rosà non si limita a una spudorata critica del matrimonio, ma elogia in maniera non troppo velata l’adulterio, intendendolo come strumento necessario alla donna per sfuggire all’annullamento a cui è destinata tra le mura domestiche. La donna tradisce non per leggerezza o debolezza al desiderio sessuale, ma al contrario come atto di autodeterminazione per cui è necessaria una mentalità complessa, un percorso lastricato di fatica e dolore.

È intenzione di Rosà lanciare un appello alle donne del domani e investirle della missione di diventare paladine delle lotte future, coloro a cui sono rivolte tutte le istanze di cambiamento, realizzabili attingendo alla forza centrifuga che risiede nella loro natura irrequieta, bestiale e generatrice, incarnata dalla protagonista Edvige Monti. Il romanzo raccoglie frammenti delle sue giornate e conversazioni, dove gli incontri con i suoi amanti si alternano ai turbamenti che ne derivano e vengono raccontati alle sue amiche borghesi dalle vite noiose.

Edvige scorre tra le pagine come una scintilla vivace, un corpicino nervosissimo animato da una febbrile irrequietezza che la accende e tormenta. Questo temperamento risulta agli occhi maschili come una “passionalità senza scopo”, qualcosa che consuma e sfiorisce la donna snaturandone la femminilità.

Oh, Allori! Non potete immaginarvi che anarchia ho dentro di me – che fornace di irrequietezza, e sete di cose assurde – che non avvengono mai…”  

Rosa Rosà, collezione familiare Arnaldi

Il lavoro di illustratrice e disegnatrice

Con Non c’è che te si chiude il brevissimo periodo di scrittura futurista, e dopo poco anche quella artistica. Partecipa alla “Grande Esposizione Futurista” nazionale nel 1918 e internazionale nel 1922, mentre le sue lettere con Settimelli mostrano una continuità nel movimento sino al 1923. Nel 1922, ancora con lo pseudonimo di Rosa Rosà, illustrò la versione tedesca di un libro di fiabe persiane Il libro del pappagallo (Das persische Papageienbuch) e una riedizione della celebre raccolta di racconti orientali Le Mille e Una notte (Tausend und eine Nacht) a cura di Ernst Roenau. I disegni sanciscono la transizione dalle tinte fredde e linee squadrate del periodo futurista, a colori più caldi e forme dolci ed esotiche, anticipando la fascinazione che dominerà i successivi anni della sua vita. 

Rosa Rosà, Illustrazioni delle Mille e Una Notte (1922)

Negli anni Trenta, l’artista e scrittrice scomparve progressivamente dalla scena artistica e si ritirò sempre di più a vita privata e di studio. Con i libri Eterno Mediterraneo (1964) e Il fenomeno Bisanzio (1970), ricomparì più di trent’anni dopo sotto le vesti di studiosa, firmandosi col cognome Arnaldi per suggellare forse un nuovo stadio esistenziale di riconciliazione con il suo legame affettivo familiare. 

Entrambi i libri sono il prodotto di un’indagine delle origini della spiritualità, che parte da una circumnavigazione delle rive della civiltà mediterranea e arriva a un’esplorazione delle radici cristiane nel misticismo bizantino. La sua intenzione è mettere in luce le forme d’espressione umana minormente rappresentate, testimoniando quella “ricerca dell’ignoto” che ispirava la sua arte e la sua curiosità. 

Gli ultimi anni della sua vita li spese dedicandosi alla famiglia, fino al 1974, anno in cui morì di Parkinson nella sua casa a Roma. In una lunga intervista pubblicata nel Diario parafuturista (1990) di Mario Verdone, l’artista rivelò che la sua più grande passione fu il disegno in bianco e nero. 

Edyth Arnaldi, Disegni in bianco e nero della collezione familiare
Edyth Arnaldi, Disegni in bianco e nero della collezione familiare

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quello che invece svelò nell’intimità della sua famiglia, fu di essersi sempre immaginata come un fiume in piena, un corso d’acqua con numerosi affluenti e in costante movimento. Effettivamente, quest’immagine ben rappresenta il percorso compiuto nella sua vita, come donna e come individuo. Con questa metafora, Rosa Rosà ci ispira a vivere lasciando che cultura ed esperienza affluiscano in noi, utilizzando ogni spazio di confronto per evolvere, senza paura di mutare, senza cedere a nessun compromesso su qualsivoglia ruolo, poiché essi altro non sono che argini che impediscono all’essere umano di “straripare nel mondo”.