L’arte come superamento del trauma | Intervista a Claudia Zini

L’arte come superamento del trauma | Intervista a Claudia Zini

 

In un’intervista rilasciata al giornalista Rai Vito Magno nel 2010, nella quale faceva riferimento al suo film Baarìa e alla sua idea di cinema in generale, il regista Giuseppe Tornatore sosteneva che l’arte e la cultura rimandano a un concetto di bellezza che serve a fornire all’uomo strumenti migliori per la convivenza sociale e civile. Proprio in questa direzione si muove l’impegno dell’associazione culturale Kuma, attiva in Bosnia ed Erzegovina dal 2019 nella valorizzazione oltre che nella divulgazione della scena artistica locale, sotto la guida di Claudia Zini.  

La frase di Tornatore necessita però di un’ulteriore aggiunta, che la stessa storia di Kuma dimostra ed è relativa al ruolo fondamentale dell’arte non solo a livello sociale, ma anche individuale. L’arte costituisce infatti un momento cardine in quel processo esistenziale magnificamente spiegato da Jung con il termine individuazione. Tale processo coinvolge sia l’artista, il quale probabilmente non riuscirebbe a spiegare e a spiegarsi in un modo diverso dall’arte determinati avvenimenti e stati d’animo, che lo spettatore. In questo secondo caso non posso che riportare la mia esperienza personale di expat italiano a Sarajevo, poiché proprio grazie a Kuma e al suo lavoro di divulgazione dei variegati fenomeni artistici bosniaci sono riuscito a comprendere nuovi fondamentali aspetti del paese nel quale sto vivendo. Considerando poi che la diversità non è soltanto fuori da noi, ma abita prima di tutto noi stessi, proprio nel corso di tale esperienza riesco a continuare a capire nuove cose di me. 

Tornando invece al ruolo sociale di una realtà come Kuma, un contributo cruciale è quello che va nella direzione di scalfire la percezione più comune dell’area balcanica. Se da un lato non possono essere negati i fattori interni che impediscono alla Bosnia ed Erzegovina di uscire da criticità apparentemente croniche, dall’altro non si possono non riconoscere i limiti dovuti al Balcanismo con cui troppo spesso gli Occidentali guardano a questa terra e in generale a tutti i paesi dell’Ex Jugoslavia. Conoscere Kuma e le espressioni artistiche che divulga rappresenta un ottimo primo passo per capire che nell’Ex Jugoslavia non ci sono soltanto violenza e odio, ma tantissimo altro.Venire a contatto con l’arte di questi paesi può aiutare a definire e a comprendere proprio quei problemi, che troppo spesso vengono superficialmente giudicati endemici e senza soluzione. 

Ne ho parlato con Claudia Zini, che ha deciso di raccontarci la sua storia e quella di Kuma.  

Prima di parlare di Kuma, vuoi raccontarci la tua storia e come e quando è nato il tuo legame con i Balcani in generale e Sarajevo nello specifico?

La mia storia con la Bosnia è iniziata quasi per caso nel 2008 a Trento, la mia città natale, grazie a mia madre. Avevo appena cominciato la laurea specialistica a Venezia in Beni Culturali e non mi occupavo di Balcani, mentre invece mia madre faceva volontariato con organizzazioni no profit attive a Prijedor e a Banja Luka e una sera mi invitò a vedere una mostra di dodici artisti bosniaci. Non me ne resi conto immediatamente, ma in un certo senso proprio quella sera scattò la scintilla fra me e i Balcani e, nonostante le barriere linguistiche, entrai subito in estrema confidenza con questi artisti, a tal punto che decisi di trascorrere il capodanno successivo loro ospite a Prijedor. Quello fu il mio primo viaggio nei Balcani, ma ovviamente non l’ultimo. Da subito mi dissero che non volevano utilizzare la guerra nella loro arte e all’epoca non avevo le competenze per mettere in discussione tale affermazione. Poco dopo ho intrapreso uno stage presso la galleria slovena che si occupava di organizzare il padiglione ufficiale della Slovenia alla Biennale di Venezia. Inoltre la gallerista si occupava di portare avanti progetti sull’arte jugoslava a Verona, e nel 2009 siamo riusciti a organizzare una collettiva con lei e i miei amici di Banja Luka e Prijedor, oltre che altri artisti di Sarajevo. Nel frattempo stavo terminando la mia laurea specialistica e, ovviamente, scelsi come tema della mia tesi l’arte contemporanea bosniaca, rimanendo per di più fedele a quanto mi dissero i miei primi amici, ovvero di non fare riferimenti alla guerra.

Una volta terminata l’università come hai portato avanti il tuo interesse nei confronti dei Balcani?

In realtà il percorso non è stato assolutamente lineare, poichè dopo l’università decisi di vivere e a lavorare a Venezia, staccandomi dai Balcani e smettendo di andare in Bosnia. Almeno fino a quando nel 2013, a distanza di 10 anni dall’ultima volta, venne organizzato il padiglione della Bosnia ed Erzegovina alla Biennale di Venezia. Quest’evento riattivò definitivamente il mio legame con i Balcani, e per questo decisi di voler riprendere in mano la mia tesi magistrale per ampliarla, grazie alla vittoria di un dottorato a Londra. Nel primo anno di dottorato mi dividevo fra Londra e Sarajevo, e il mio primo impatto con la città, avvenuto d’inverno, fu talmente duro da farmi pensare di abbandonare il progetto. Non solo però non abbandonai il progetto, ma capii che per portarlo avanti meglio dovevo trasferirmi a Sarajevo, cosa che feci nel secondo anno di dottorato. Oltre a lavorare alla mia ricerca avevo cominciato a collaborare alla galleria Duplex 100m2 fondata da Pierre Courtin. Tramite quest’esperienza si aprì un mondo di nuovi archivi e di nuovi contatti. Da questo trasferimento nel 2015 a Sarajevo non sono più tornata in Italia. Sono cambiati i miei orizzonti e sono quindi approdata a un’idea completamente differente rispetto alla prima, che non voleva mischiare guerra e arte, comprendendo quanto non si possa studiare l’arte bosniaca senza fare riferimento alla guerra, e soprattutto quanto sia importante l’arte per elaborare i lutti e i drammi della guerra stessa.

Cosa ti ha spinto a fondare Kuma e quali sono i suoi obiettivi?

Ho cominciato a pensare a Kuma nel 2017, periodo nel quale svolgevo interviste con artisti bosniaci e ricerche sulla connessione fra l’arte e la guerra. Parlavo ogni giorno con persone sopravvissute alla guerra e ho capito per quale motivo i miei amici provenienti dalla Repubblica Srpska non volessero parlarne. Mi sono resa conto di essere stata accettata e di aver ricevuto tanta fiducia dal circolo culturale artistico di Sarajevo, con la consapevolezza per di più di voler rimanere a vivere a Sarajevo anche per raccontare e promuovere la scena culturale e artistica bosniaca. Tutti questi elementi mi hanno fatto capire quanto fosse necessario un centro culturale, che svolgesse da punto d’incontro per gli artisti bosniaci e per tutti gli stranieri che per motivi diversi si trovavano a Sarajevo. La prima iniziativa organizzata è stata una Summer School nel 2018 di sei giorni dedicata all’arte contemporanea bosniaca, nella quale abbiamo accettato 20 studentesse sia bosniache, a cui abbiamo offerto borse di studio, che internazionali. Il focus era relativo al tema della diaspora e infatti fra le partecipanti vi erano anche figlie della diaspora bosniaca. Nel 2019 sono riuscita finalmente a far registrare Kuma come organizzazione no-profit bosniaca. Sicuramente un grande obiettivo è quello di dare spazio agli artisti bosniaci contemporanei e di approfondire le tematiche culturali e artistiche legate alla guerra e al post conflitto in Bosnia ed Erzegovina e non solo. Partendo da queste basi solide, rimane l’ambizione di espandersi il più possibile sia a livello geografico che tematico.

Workshop alla Brodac Gallery

 

Come si è sviluppata e continua a svilupparsi Kuma?

Dopo la Summer School abbiamo cominciato a contattare donors per ottenere i finanziamenti, che sostenessero le nostre iniziative decidendo di estenderci tematicamente all’architettura oltre che all’arte. Nel 2019 abbiamo cominciato a girare la Bosnia per approfondire anche le scene culturali fuori da Sarajevo, come ad esempio Bihac, Banja Luka e Srebrenica. Nello stesso anno abbiamo organizzato la prima settimana dedicata interamente all’architettura con studenti bosniaci e dell’Università di Pescara, dalla quale è nata la nostra prima pubblicazione Unfolding Sarajevo.

Si può dire che il vostro lavoro intende anche costruire un ponte fra la Bosnia e altri paesi, come ad esempio l’Italia e la Palestina, come dimostrato dal mese dell’Architettura?

L’idea di fondo è sempre stata quella di parlare della scena culturale e artistica bosniaca per farla conoscere anche fuori dal paese stesso, ma con l’ambizione di espandere il nostro campo di indagine ad altre società coinvolte in situazioni di post conflitto, come avvenuto proprio nel caso della Palestina. 

In quest’ottica un altro dei vostri focus è relativo alla diaspora bosniaca. Cosa rappresenta per voi e in che modo intendete portarlo avanti?

Il tema della diaspora è sicuramente fondamentale per noi e per me personalmente, visto che anche io vivo lontano dal mio paese natale, e parte della mia famiglia è emigrata in Cile. Prima ancora che nascesse Kuma sono entrata in contatto con una serie di artisti figli della diaspora bosniaca e il loro incontro mi ha fatto capire quanto fosse fondamentale approfondire e divulgare le loro storie per dargli uno spazio. In qualche modo loro sono stati fra i motori principali che hanno portato alla nascita di Kuma e in quest’ottica non posso non citare il film Nostalgia di Ervin Tahirovic, nel quale il regista racconta la sua storia di bosniaco cresciuto all’estero a causa della guerra. Con Kuma volevo costruire una casa per tutti i bosniaci figli della diaspora di ritorno a Sarajevo, oltre che indagare le loro storie, poichè mi sono resa sempre più conto di quanto tutte queste storie individuali avessero caratteristiche psicologiche, esistenziali e artistiche comuni al punto da costruire un fenomeno sociale da approfondire e affrontare. In un certo senso è come se esistesse una sindrome comune a tutti i figli della diaspora bosniaca, e probabilmente l’espressione artistica è funzionale a condividere e affrontare l’enorme carico emotivo interno a questa sindrome. 

Nostalgia di Ervin Tahirovic

La sindrome di cui parli in cosa si manifesta nel concreto?

La prima fase esistenziale di questi artisti è caratterizzata da un allontanamento dall’identità familiare bosniaca, principalmente per inserirsi nel loro nuovo contesto e anche per distaccarsi dalla guerra, ma quasi tutti dopo circa quindici o vent’anni sentono il bisogno di riscoprire il loro passato e di farlo attraverso l’arte. È incredibile come questo entri in contatto con quegli artisti bosniaci che si sono invece occupati subito del conflitto, e al contrario vorrebbero dedicarsi ad altro. La caratteristica comune a entrambi è quella di partire da un episodio particolarmente traumatico della loro vita bosniaca e di rielaborarlo attraverso l’arte. Kuma è nata anche per permettere a questi artisti di esporre e di dialogare fra loro e con il pubblico bosniaco e non.

In generale quale può essere il ruolo dell’arte nelle società e per le persone che vivono il post-conflitto e che per questo motivo possono dover affrontare dolorosi traumi legati al conflitto?

Questo tema è stato già ampiamente studiato e proprio questi studi mi hanno guidato nel voler fondare Kuma. Raccontare e rielaborare determinati traumi attraverso l’arte è necessario sia a livello individuale che di società. In quest’ottica l’arte si pone come strumento di condivisione, con la duplice e contemporanea funzione di testimonianza e terapia. Ho avvertito spesso dello scetticismo intorno al mio lavoro, da parte di chi non senta la necessità di occuparsi dell’arte in Bosnia ritenendola inutile ai fini della riconciliazione in questo paese, soprattutto rispetto ad altre tematiche collegate ai diritti umani e alle rivendicazioni politiche. Ovviamente non discuto l’utilità della politica, ma ritengo che l’arte debba avere una funzione centrale in un approccio multidisciplinare e collettivo proprio in contesti così difficili.

La traiettoria che lega la tua vita alla Bosnia è cominciata nel 2008. In che modo hai visto cambiare il paese e che prospettive vedi per il futuro?

Questo paese è cambiato molto, e io insieme a lui. Nessuno degli amici che ho conosciuto nel 2008 è ancora qui e credo che questo dica molto riguardo a quanto sta avvenendo, nel senso che purtroppo il paese si sta svuotando. Noto una modernizzazione generale del paese, come testimoniato anche dalla graduale costruzione delle autostrade e delle tecnologie.

In generale vedo dei piccoli miglioramenti nella mia vita quotidiana e in quella delle persone a me vicine, ma se analizzo la situazione a livello macroscopico vedo un paese fermo, che quando cambia lo fa in peggio. Il Covid ha avuto un effetto devastante per la popolazione, sia a livello di morti che a livello economico. In generale il paese è rimasto profondamente diviso, la situazione politica è preoccupante e non ho grandi speranze per il futuro. Io credo che questo paese sia pieno di talento e di potenzialità, purtroppo tarpate dalla comunità internazionale e dai politici locali. Non mi stupisce infatti che molti giovani lascino questo paese e riescano a emergere e ad affermarsi fuori da qui. 

E che prospettive vedi per il tuo futuro? La sensazione è che tu sia arrivata qui, senza minimamente immaginare una permanenza così lunga. Proprio al netto di questo mi incuriosisce sapere se lo rifaresti.

Confermo al cento per  cento la tua sensazione e ti dico che lo rifarei senza ombra di dubbio, sperando soltanto di riuscire a farlo con meno patemi e incertezze nel percorso, senza esitazioni sul punto di arrivo, che ritengo però ancora un punto di partenza. Mi piacerebbe ampliare Kuma creando sempre più ponti verso l’esterno, magari con uffici in tante altre parti del mondo. La base però è e sarà sempre Sarajevo, anche perché vivrei come un tradimento e un affronto spostarla da qui. 

Maximilian Von Altenberg