Da che mondo è mondo, il sex work è sempre esistito e così il dibattito sul tema. Tuttavia, un punto fondamentale e necessario, che viene quasi sempre ignorato, rimane: il diritto all’autodeterminazione delle persone che svolgono sex work per scelta. Sì perché il lavoro sessuale non è sempre una condizione di sfruttamento. Come recita il Manifesto dei/delle Sex Workers in Europa – redatto a Bruxelles nel 2005 da 120 sex workers di 26 paesi nel corso della Conferenza Europea su Sex Work, Diritti Umani, Lavoro e Migrazione – infatti, “il sex work è per definizione sesso consensuale. Il sesso non consensuale non è sex work; è violenza sessuale o schiavitù”.
Una svolta sulla rivendicazione dei diritti della categoria è avvenuta con i movimenti femministi degli anni Settanta e tale esigenza si è evoluta fino ad oggi, giungendo a un punto critico soprattutto con l’avvento della pandemia causata dal Covid-19, che ha segnato un’urgenza di riconoscimento legale e di abolizione dello stigma sociale attorno al sex work e a coloro che lo praticano.
Vivendo già in una tale condizione di difficoltà e incertezza quotidiane, con l’emergenza sanitaria queste persone si sono ritrovate senza alcun tipo di tutela da parte dello Stato. Una mancanza istituzionale che è stata sopperita in numerose città italiane solo da iniziative di collaborazione e mutualismo dal basso, con l’avvio di raccolte fondi e collette alimentari.
Di sex work, e nello specifico di sex work a Bologna e delle difficoltà dovute alla pandemia, tratta il cortometraggio documentario Amaranto (Italia/2020/20’), presentato il 28 ottobre 2021 al festival Visioni Italiane di Cineteca di Bologna. Attraverso il mezzo dell’intervista, l’autrice Noemi Marilungo affronta il tema con uno sguardo rispettoso ed empatico, che racconta quotidianità invisibili ai più, ma tutt’altro che marginali.
Prima di tutto una domanda su di te. Come e perché hai iniziato a fare documentari e da dove è nata l’esigenza di raccontare il mondo del sex work?
In realtà ho iniziato proprio con questo documentario. Tutto è nato con il corso Tecniche di reportage foto e video che ho frequentato presso la Cineteca di Bologna, dove ad ogni partecipante è stato chiesto di produrre un project work finale su un tema di suo interesse. L’unica richiesta era di trattare un contesto che appartenesse al periodo storico che stavamo vivendo, ovvero legato all’emergenza Covid-19. Così sono partita da una domanda che mi ero già posta in precedenza: come stanno vivendo la pandemia le persone che praticano sex work? Ho iniziato a documentarmi e ho deciso che avrei trattato di questo tema nel mio project work, anche se non ne sapevo ancora quasi nulla.
Da dove deriva il titolo Amaranto?
Il titolo deriva da una pianta, l’amaranto appunto, il cui significato è letteralmente “che non appassisce”, quindi è come se fosse qualcosa di eterno. La scelta di questo termine non è legata direttamente alla tematica del documentario, ma mi piaceva l’idea di ricollegare l’etimologia del termine ai legami tra persone e di come alcuni di essi non appassiscano mai, siano saldi e non svaniscano. Inoltre, anche il colore dell’amaranto è molto evocativo, un rosso scuro che richiama un po’ quello simbolo della lotta di rivendicazione dei diritti de* stess* sex worker, che spesso si uniscono in collettivi, i quali sono costruiti proprio sui legami tra i membri e il conseguente senso di comunità che si va a creare.

Come ti sei mossa per la produzione del documentario?
Inizialmente ho cominciato a documentarmi sul tema, leggendo articoli e guardando film e video sull’argomento, cercando ispirazione per impostare il mio di lavoro. Ciò che mi premeva di più era che il documentario fosse il più possibile impostato sul confronto e sulla testimonianza di persone direttamente coinvolte. Trattando di un tema così delicato, non volevo fare qualcosa di inadeguato e soprattutto di irrispettoso. Per questo ho deciso di utilizzare l’intervista come mezzo principale per la narrazione.
Come hai intercettato le persone da intervistare?
Dapprima ho contattato il collettivo Ombre Rosse, composto da sex worker, ex sex worker, attivist* e persone alleate che lottano per il riconoscimento e la decriminalizzazione del lavoro sessuale, e successivamente il MIT – Movimento Identità Trans, associazione che si occupa principalmente dell’accompagnamento e dell’assistenza di persone transgender nel loro percorso, oltre ad avere all’attivo progetti di riduzione del danno nel mondo della prostituzione. Sono così riuscita a intervistare la ex sex worker Mary Sommella, Porpora Marcasciano – ex sex worker e attuale presidente del MIT – e le attiviste e operatrici Sofia Mehiel e Anna D’Amaro, con la quale mi sono interfacciata e confrontata maggiormente.

Che ruolo hanno Sofia Mehiel e Anna D’Amaro nell’ambito del sex work a Bologna?
Come ho accennato prima, nell’ambito del sex work a Bologna il MIT si occupa principalmente di riduzione del danno. Per riduzione del danno si intende una serie di attività che non ha come scopo quello di abolire la prostituzione, bensì aiutare e assistere le persone che la praticano. In particolare, Sofia e Anna seguono il progetto Via Luna, realizzato da un’equipe operativa composta da mediatrici culturali, educatrici, operatori sociali e avvocati in collaborazione con il Comune di Bologna e la Regione Emilia-Romagna. Grazie all’ausilio di una unità di strada mobile (UDS), le operatrici svolgono l’attività direttamente sul territorio (Bologna e comuni limitrofi) raggiungendo direttamente le/i sex worker, sia in strada che in appartamento, e distribuendo generi alimentari, preservativi e materiali informativi sulla prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili. Tra le loro azioni vi è anche l’aggiornamento periodico della mappatura delle zone dove si trovano le persone che praticano lavoro sessuale in città. Inoltre esiste un servizio, di cui si occupa prevalentemente Anna D’Amaro, che consiste nel contattare telefonicamente le/i sex worker, che possono a loro volta contattare l’associazione per richiedere assistenza sanitaria e legale gratuite.
Come si è sviluppato il confronto con Anna D’Amaro di cui accennavi prima?
Anna è stata una figura fondamentale per la realizzazione del documentario, perché mi ha aiutato a capire quali fossero i giusti passi da compiere. Insieme abbiamo pensato che sarebbe stato complicato intervistare sex worker perché queste persone difficilmente riescono a dare confidenza davanti a una telecamera. Perciò abbiamo ritenuto che sarebbe stato meglio sentire la voce di chi opera nel mondo della prostituzione. Ho così iniziato a impostare le domande per Porpora, Sofia e la stessa Anna, grazie alla quale ho conosciuto in un secondo momento Mary Sommella, ex sex worker non appartenente direttamente al mondo dell’attivismo, e ho voluto inserire anche la sua testimonianza.

È soprattutto nella parte del documentario proprio dedicata a Mary che emerge il tema del Covid-19 e della difficile situazione conseguente che si è creata per le/i sex worker.
Nel momento in cui ho intervistato Mary per il documentario, lei aveva smesso di praticare sex work, ma aveva continuato a farlo indoor (ovvero in casa) durante la prima fase della pandemia. A causa dell’emergenza sanitaria, non potendo più esercitare, si è ritrovata come tant* altr* in una condizione di indigenza, senza nessun aiuto istituzionale. Una mancanza questa, che è stata sopperita solo da iniziative mutualistiche attivate da associazioni alleate e gruppi di cittadini.
Cosa hai scoperto sulle dinamiche del sex work? Come viene vissuto il pregiudizio dalle persone direttamente coinvolte?
Ciò che soprattutto è emerso, e che rimane uno dei problemi principali sul mondo del lavoro sessuale, è che questo non sia quasi mai considerato come una scelta consapevole, ma per forza come una imposizione, il frutto di uno sfruttamento. È chiaro che alcune persone si possono trovare ad essere “costrette” a prostituirsi perché provenienti da contesti socio-culturali difficili e perché bisognose di denaro, ma ci sono molti casi in cui questa è davvero una scelta. Continua tuttavia ad esistere una parte del movimento femminista definito abolizionista, che ritiene che il sex work sia di per sé una condizione di sfruttamento e che quindi dovrebbe essere abolito. Secondo questa corrente di pensiero tutte le persone che si prostituiscono sono vittime di tratta e quindi devono essere salvate.

Considerando la complessità di una tematica come questa, come hai impostato il documentario dal punto di vista stilistico e dell’immagine?
La lavorazione del documentario in generale è stata dura, non solo per l’argomento spinoso ma anche perché ho dovuto concentrare le riprese in pochissimo tempo, tra fine agosto e ottobre 2020, a causa dell’inasprirsi delle restrizioni dovute alla pandemia. Chiaramente di ciò hanno risentito anche lo stile e l’immagine, proprio perché c’era pochissimo margine di errore a causa della mancanza materiale di tempo a disposizione per le riprese: non avrei avuto possibilità di rifarle. Buona la prima, insomma [ride, ndr]. Quindi mi sono fatta solo una sorta di mappa mentale, di immagini che avrei voluto creare, e mi sono buttata. Ho ripreso le diverse scene ognuna in una singola occasione, a parte quella dove accompagno Sofia in macchina durante un’uscita, che è composta da immagini che ho girato in due momenti diversi.
Quindi, per essere il tuo primo documentario, si può dire che sei contenta del tuo lavoro?
Nonostante tutte le incognite del caso – come il rischio di pioggia, la mancanza di tempo, la scomodità di portare l’attrezzatura – sono soddisfatta del risultato. Anche considerando il fatto che il progetto l’ho portato avanti da sola dall’inizio alla fine in tutti i suoi aspetti (dal soggetto alla regia, dalla fotografia al suono), come da regolamento per la realizzazione del project work. Inoltre, mi è stato di grande aiuto il tutor del corso, il prof. Roberto Beani, a cui mandavo periodicamente il materiale pre-montato e che mi ha dato un sacco di consigli, oltre a spronarmi ad andare più in profondità nell’indagine della personalità delle protagoniste, ricercandone anche aspetti quotidiani e più intimi.

Amaranto viene presentato al festival dedicato agli esordi e ai documentari Visioni Italiane 2021, organizzato da Cineteca di Bologna, e lo hai proposto anche ad altre manifestazioni cinematografiche. Quali sono invece i tuoi prossimi progetti?
Sembrerà scontato, ma la certezza è che non voglio smettere di fare documentari, anche se per me questo è un periodo di pausa. L’idea in futuro è quella di realizzarne altri.
Ho ricevuto poi diverse opinioni da chi ha già visto Amaranto, secondo le quali sembra che il film non abbia una vera fine, che manchi qualcosa. Questo mi ha fatto riflettere e mi ha dato lo spunto di continuare un giorno questo progetto, con i giusti mezzi, magari non da sola e con una casa di produzione di supporto, per trasformarlo in un lungometraggio. Questa volta vorrei che il lavoro non si basasse più sulle interviste, ma che fosse un documentario observational, osservando e seguendo le persone nella loro quotidianità. Dunque mi auguro che Amaranto sia solo l’inizio, un’introduzione a tutto ciò che ancora non sono riuscita a raccontare.
Zoe Ambra Innocenti