Gli statunitensi amano le loro armi da fuoco, e fino a qui niente di nuovo. In un paese in cui ci sono più armi che persone, non ci si sorprende di fronte al fatto che questo comporti un problema endemico di violenza: solamente nei primi tre mesi e mezzo del 2021 negli Stati Uniti il numero di mass shootings è arrivato a 147 secondo il Gun Violence Archive. La risonanza mediatica di questi eventi ha posto la questione della regolamentazione e del controllo delle armi da fuoco in cima alle priorità del neo eletto presidente Biden, in particolare per quanto riguarda il problema delle cosiddette ghost guns, armi i cui componenti vengono acquistati separatamente su internet, prive dunque di numero seriale e non rintracciabili, e riguardo il background check e i limiti delle Red Flag Laws.
Resta il fatto che, al di là di questi eventi più appariscenti a livello mediatico – la principale causa di morte per arma da fuoco è il suicidio, nonostante si dia molto più risalto alle sparatorie di massa – l’amore per le armi è un tratto culturale ormai tanto radicato e trasversale negli Stati Uniti da connotarsi di ulteriori influenze e significati: le armi sono infatti un prodotto di consumo, oggetto di mode portate avanti da influencer di settore, ma anche il centro di tradizioni familiari che si tramandano di padre in figlio, un simbolo identitario e al tempo stesso di “lifestyle”.
Gabriele Galimberti, fotografo italiano da anni collaboratore del National Geographic, ha ricostruito le fila di questo complesso discorso con uno straordinario lavoro di reportage che attraversa gli Stati Uniti, contenuto nel libro The Ameriguns, e che gli è valso la vittoria al World Press Photo 2021 nella categoria Portraits, Stories. Attraverso uno stile inconfondibile che utilizza simmetrie ordinate, una composizione volutamente artificiale, statica e impostata, e un continuo confronto tra soggetti e oggetti in una collezione ossessiva di ritratti, Galimberti analizza la questione delle armi da fuoco seguendo quattro traiettorie a cui corrispondono i capitoli del libro: Freedom, Family, Passion and Style.
Qual era la tua esperienza degli Stati Uniti prima di The Ameriguns e com’è nato il progetto?
Lavoro negli USA da quindici anni ormai, è il paese dei miei primi reportage e c’è un legame molto forte. The Ameriguns è partito circa tre anni fa un po’ per caso. Stavo lavorando a una storia sul collezionismo di fossili di dinosauri in Kansas. In un momento libero sono entrato in un negozio di armi per la prima volta. Mentre curiosavo tra pistole e mitragliatori, mi sono messo a chiacchierare con un cliente, a cui ho chiesto se quella che stava acquistando fosse la sua prima pistola. Mi ha risposto che a casa ne aveva altre 50-60. Ho sgranato gli occhi e gli ho chiesto se potevo fotografarlo. Dopo un’ora ero a casa sua, dove gli ho fatto un ritratto circondato dalle sue armi da fuoco. Il risultato mi è sembrato così forte da spingermi a fare altri ritratti. Sempre partendo dai negozi di armi, è stato piuttosto facile nei giorni successivi trovare persone disposte a farsi ritrarre, e nel giro di una settimana ne avevo quattro o cinque. Le foto sono piaciute agli editor di National Geographic, increduli che io avessi scattato queste foto: nonostante siano statunitensi, è stato scioccante anche per loro scoprire la presenza di una tale quantità di armi in un’abitazione, magari del tuo vicino di casa. E da lì è partito il progetto.
Come hai deciso la struttura del progetto?
Abbiamo deciso di coprire tutta l’area degli Stati Uniti, quello che mi interessava era di mostrare non solo aree come il Kansas e il Texas, ma l’intero paese. Nessuno si aspettava che avrei trovato lo stesso tipo di situazione e di immagini a Boston, a New York, a San Francisco, alle Hawaii. Il tentativo era quello di scardinare alcuni stereotipi legati all’idea che solo i bianchi dell’Arizona e del Texas possiedano le armi, e che il resto della popolazione sia contro. La realtà è che, nonostante ci sia una parte consistente che rema contro questa tendenza, la presenza di armi è diffusa trasversalmente, non importa che tu sia bianco o nero, ricco o povero, che tu abbia votato Obama o Trump: l’amore per le armi è nel DNA dei nord americani.
Come sei entrato in contatto con le persone che hai ritratto?
Le prime foto sono state quasi porta a porta, in un secondo momento ho iniziato una ricerca più specifica dall’Italia, contattando associazioni, poligoni, negozi che volevo visitare; ma la fetta più grande della mia ricerca si è svolta su Instagram, perché ho scoperto che esiste un’enorme comunità di amanti delle armi che non ha nessuna vergogna a mostrarsi tale. Ci sono migliaia di profili di persone che promuovono l’uso delle armi [l’uso di influencer permette alle aziende produttrici di armi di promuovere i propri prodotti aggirando le restrizioni dei social N.d.R]. Ne ho individuati tre o quattrocento che mi sembravano molto interessanti da fotografare, e da lì è partito il mio viaggio da New York alle Hawaii, dal Montana alla Florida.
Non pensi che scegliendo persone che già decidevano di esporsi sui social abbia escluso una fetta significativa dalla tua ricerca?
In realtà gli influencer sono solamente cinque o sei, nella parte dedicata del libro. Il resto delle persone che ho contattato su Instagram sono persone comuni, che un giorno postano la foto del gatto e il giorno dopo la foto mentre puliscono tre mitragliatori preparandosi ad andare al poligono, come potrei fare io postando ogni tanto una foto sulla moto perché sono appassionato.
Sotto quale capitolo ricadono gli influencer?
Sono quattro i capitoli del libro: Freedom, Family, Passion and Style. Quello degli influencer sicuramente è il capitolo “Style”, perché racconta come le armi siano, soprattutto tra i giovani, un oggetto di moda più che di difesa o di sport. In tanti casi sono oggetti acquistati come occhiali da sole o come il nuovo modello di Nike; ho visto addirittura armi brandizzate con il logo di Louis Vuitton abbinato alla borsetta. Seguono esattamente le stesse dinamiche del mondo della moda.
Ti sei mai sentito in pericolo o non completamente a tuo agio durante il progetto?
Devo dirti onestamente di no. Quasi tutte le persone che ho intervistato, a parte qualche personaggio bizzarro, sono persone normali, e anche questa è stata una cosa interessante che è venuta fuori e che scardina l’immaginario per cui si pensa a queste persone come fanatiche o estremiste, in realtà non è così. Negli Stati Uniti le armi non sono una cosa straordinaria, sono veramente la normalità. Le statistiche lo fanno capire: ci sono 400 milioni di armi registrate su 326 milioni di abitanti negli USA, quindi un’arma e mezzo a testa registrata. Se stringi il numero a chi effettivamente detiene le armi, tra i 18 e i 60 anni, il numero pro capite aumenta, e questo racconta quanto sia normale avere armi. In nessun caso le persone che ho fotografato si sono dimostrate minacciose o mi hanno fatto sentire spaventato. Ci sono stati casi in cui ho pensato che le armi fossero nelle mani sbagliate, questo sì. È stato il caso di persone che hanno apertamente dichiarato di avere posizioni politiche estreme, oppure quando sentivo che la stabilità psicologica della persona che avevo davanti era traballante, ma sono state mie sensazioni di passaggio, mai di paura.
Nei tuoi precedenti lavori il filo conduttore veniva esplorato trasversalmente in tutto il mondo, e questo sottolineava delle differenze in maniera evidente. Nel tuo ultimo progetto invece emerge l’uniformità tra gli stati americani.
Non sono del tutto d’accordo. I miei lavori precedenti, quelli che hanno questa chiave visuale, raccontavano tanto differenze quanto similitudini, ad esempio in Toy Stories (il progetto ce ritrae bambini di tutto il mondo circondati dai propri giocattoli). Era la stessa geografia del progetto, piuttosto che il concetto che ci ho messo dentro, a mostrare inevitabilmente differenze culturali enormi tra i vari paesi. Nel caso di The Ameriguns il territorio e la cultura sono gli stessi, quindi è venuta fuori in maniera più evidente la similitudine tra i soggetti. In questo caso il mio intento non era di mostrare quanto fossero simili, ma di fare un ampio ritratto di una cultura e di un paese, e i 40 soggetti scelti sono i rappresentanti del fenomeno che mi interessava raccontare: l’amore per le armi da fuoco.
Quando ti sei reso conto che ti interessava indagare il rapporto tra i soggetti e gli oggetti che li circondavano?
È nato un po’ per caso, a partire dal primo lavoro importante che ho fatto, CouchSurfing, dormendo a casa delle persone per circa due anni. Mi interessava raccontare la normalità della vita delle persone in giro per il mondo, entrare come una spia in casa degli altri. In questa occasione mi sono appassionato alla ricerca di elementi straordinari nella normalità: tutti noi abbiamo una particolarità che ci distingue. Da lì è diventata la mia ossessione quando racconto le storie, le abitudini, come vivono e cosa amano le persone che ritraggo.
Come sei approdato al tuo stile ordinato e simmetrico delle inquadrature?
Anche lo stile specifico dell’ordine è nato un po’ per caso. Una decina di anni fa una mia amica mi aveva chiesto di fotografare sua figlia. Quando sono arrivato a casa loro ho trovato la bambina che giocava nella stalla del nonno con tutti piccoli giochi in ordine per terra, e di fronte a questa scena, ritoccando un po’ la simmetria degli oggetti, ho colto il suggerimento e l’ho ritratta così. Mi è piaciuta quell’immagine e ho deciso di ripeterla in altre occasioni, fino a che è diventata un segno di riconoscimento del mio lavoro, una sorta di firma.
C’è un lato compulsivo nel tuo lavoro, sia nella rigida composizione e disposizione di oggetti, sia nell’idea in sé di collezione.
Mai diagnosticato, però un piccolo disturbo ossessivo compulsivo c’è [ride N.d.R]. Quando scatto le foto, anche se non uso lo stile della disposizione degli oggetti, sono molto preciso, mi piace l’ordine, sfrutto le luci in modo che ci siano elementi da vedere in ogni angolo della foto, ho l’ossessione di rendere tutto immediatamente visibile e chiaro. Mi piace molto non nascondere nulla di quello che sto vedendo, per me significa dare tutti gli elementi, che rappresentano una vera e propria estensione del ritratto, per raccontare la persona.
Carlotta Centonze