Last Summer di Leonardo Guerra Seràgnoli (recensione di Alberto Berardi)

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Last Summer di Leonardo Guerra Seràgnoli (recensione di Alberto Berardi)

In mezzo al mare c’è una barca, e a bordo di quella una giovane madre e un figlio hanno quattro giorni per salutarsi. Prima che si possano rivedere dovranno passarne più di dieci. Non appena la bella e misteriosa Rinko Kichuchi viene accolta a bordo capiamo che si sta per scatenare una battaglia dei sentimenti in mezzo al mare, dove le acque apparentemente tranquille sono agitate da un equipaggio che rema contro. Il fuggire delle parti nei propri piccoli spazi privati, insieme alla tensione silenziosa nei gesti a debita distanza del personale, segue i tempi del ritirarsi del mare che precede un onda anomala. In un gioco di scatole cinesi, come il mare circonda e assedia la barca, l’equipaggio al soldo del padre facoltoso assedia e circonda un rapporto madre-figlio che non “s’ha da fare”. Eppure, come nessuna prigione è inviolabile, non esiste gabbia, per quanto sorvegliata, che non presenti un punto di leva, una feritoia da cui far entrare una lama di luce (nelle forme di un racconto-ricordo di infanzia oppure in quelle più prosaiche di un succo di frutta passato dal ponte alla coperta) che possa creare un varco. Così vediamo una lingua di terra riemergere un centimetro alla volta in mezzo all’oceano, l’isola si riprende ciò che le era stato tolto, e lo fa al contrario in un certo modo: sono le acque torbide a farsi da parte, la terra ferma era sempre stata lì, appena sotto.

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La regia di Leonardo Guerra Seràgnoli è più navigata di quanto lasci supporre la sua filmografia. Sempre in controllo di ogni dettaglio, quasi troppo fredda, analitica, ricerca il gioco di specchi e di spazi, ingabbia tutti e mette ogni cosa al suo posto. Se il finale parla di libertà  con gli stessi colori e significato che furono di Kieslowski (libertà come libertà di amare di nuovo, qui come in Film Blu), non è simile la varietà di sfumature nel colore stesso, né è libero e “esistenziale” come quello del polacco l’approccio al mezzo cinematografico (nessun uomo con la macchina da presa si interroga su dove indirizzare il suo cine-occhio, il regista non esprime mai un dubbio nel suo inquadrare) Il gioco è complesso ma gli elementi-sentimenti in gioco sono semplici, forse troppo, così come i personaggi. Una profondità maggiore, compensatoria, si raggiunge però dall’inabissamento sonoro, dal lavoro attento sul suono come secondo livello di significato, che dice, “accanto” alle immagini, di più e in maniera più sottile. Il brusio del mare è rumore nemico, come il vocio sommesso dei membri dell’equipaggio, malelingue dietro alle porte della barca prigione, mentre il suono della lingua-madre è musica, come la colonna sonora che compare solo alla fine del film per sancire un’armonia ritrovata nei gesti prima e nelle parole poi. Una menzione speciale per l’inquadratura finale, che non vogliamo spiegare ma di cui proviamo a dare un indizio che aiuti la lettura: cosa guarda prima Ken e cosa dopo? Che cosa hanno in comune e cosa di diverso i due elementi? Che significato ha passare dall’uno all’altro?