Il documentario di Jose Antonio Vargas è un’autobiografia personale e universale insieme: se l’immigrazione è fatta di storie, eccone una. La sua, peculiare, è la storia di giornalista di successo (CNN, San Francisco Chronicle, Philadelphia Daily News, The New Yorker, Washington Post, Huffington Post, vincitore del Premio Pulitzer nel 2008) eppure, si intreccia con la storia di tanti altri esseri umani undocumented (“è così che vorrei essere chiamato, semplicemente essere umano”).
Il film è la fedele versione per immagini di My Life as an Undocumented Immigrant, articolo che il giornalista filippino pubblica su The New York Times nel 2011, confessando di aver vissuto, lavorato (e pagato le tasse) negli Stati Uniti come immigrato illegale (o americano senza documenti? perchè le parole hanno un peso) dall’età di 13 anni, quando sua madre lo imbarca su un volo per la California, dove vivono i suoi nonni, Lolo e Lola, emigrati legalmente negli States negli anni 80 a prezzo di enormi sacrifici. Lo stesso tredicenne che immaginava l’America attraverso Baywatch, Michael Jackson e Oprah Winfrey diventa il protagonista di un american dream vissuto nella menzogna, dalla quale, trentenne, decide infine di uscire.
Documented è la cronaca di un coming out (non senza ironia, Jose racconta che da studente si era limitato a compiere il più semplice: dichiarare pubblicamente la sua omosessualità; più tardi sarà proprio di fronte ai volti puliti degli studenti di giornalismo nel suo vecchio liceo che Jose inaugurerà la sua seconda, più rischiosa confessione); e la storia della nascita di Define American, campagna su cosa significa essere americano. Quella nazione “compassionevole e accogliente” in cui nel 2010 i Dream Walkers, studenti senza documenti, si espongono pubblicamente su Youtube rischiando la deportazione e gravi persecuzioni a opera di movimenti che inneggiano alla chiusura dei confini, deve essere scossa. Il silenzio di Jose diventa insostenibile, a maggior ragione a causa della sua posizione privilegiata dal punto di vista mediatico: la bomba viene lanciata e il calderone esplode. Per lui l’unico effetto immediato è il ritiro della patente, il solo documento emesso dal governo che possiede; un semplice check in in areoporto diventa un momento di tensione. Ma presto la sua rivelazione si rivela un grimaldello per parlare di un tema più ampio, per chiedersi se l’immigrazione non possa essere una soluzione invece che un problema: e non un problema solo di latinos, di messicani ai confini, ma di irregolari che provengono da altri paesi dell’ Asia, del Sudamerica, dell’ Europa.
Jose ha nascosto per tutta la sua vita un segreto che è nello stesso tempo un segreto di famiglia (la
separazione dalla madre per 18 anni, il pudore di Lolo e Lola, la loro aderenza al modello americano nel tentativo di assicurare un futuro normale all’unico nipote) e l’inizio di un viaggio nel cuore di un’America multiforme, ricca di sfaccettature, dove non mancano impreviste figure positive (un agricoltore dell’Alabama invoca il diritto a collaborare con un socio latino senza sentirsi traditore dei suoi valori, Peter Perl, il giornalista che accoglie Jose come stagista al Washington Post ritenendo che il suo talento sia più importante delle sue origini), dove tuttavia un giovane imprenditore brillo al tavolo di un bar sintetizza efficacemente la retorica della caccia ai fuorilegge, agli intrusi, del “tornate a casa vostra” generico che anche dalle nostre parti fonde indistintamente diverse etnie.
Vargas regista resta giornalista (forse troppo poco, a causa del suo coinvolgimento emotivo o di qualche difficoltà a tradurre l’inchiesta giornalistica in cinema) e ci mostra alcune facce di quella stessa America che boccia il Dream Act, dove lo stesso Obama che si dichiara deluso e costernato rispetto alla decisione di non riformare le leggi sull’immigrazione ammette che durante il suo mandato vengano deportate circa due milioni di persone. Un’America dove anche durante la discussione al Senato sul Dream Act si ripropongono le paure di tanti: avremo ancora lavoro? Quanto può aprirsi un confine? Una risposta è nell’intervento di Jose: gli immigrati restano astrazioni, argomenti di discussione privi di un volto, invece che persone con speranze, paure, talenti. E alla risposta segue la domanda, forse la domanda definitiva: cosa fa di un americano un americano? (e cosa fa di un essere umano, un essere umano?)
Documented è allora soprattutto la storia di una contraddizione, di un paradosso, di uno spostamento di pensiero dal tema dell’immigrazione come problema demografico all’argomento dei diritti civili.
C’è un modo di dire filippino: “non lasciare mai il coltello”. Con ostinazione, Jose continua la sua missione, forse gravato di altri pesi, certamente liberato. Anche dal peso del passato – quello di un nonno che ha assorbito come una spugna tutto cio che è considerato americano, si proclama reaganiano e elegge a sua canzone di culto My Way di Frank Sinatra – e tolto il peso, il passato diventa un motivo di fierezza. Durante l’incontro finale via Skype con sua madre, tra risate e lacrime che si confondono, torna in mente un momento esemplare di 4:44 The Last Day on Earth di Abel Ferrara: durante il giorno noto come Fine del Mondo, Dafoe e la sua compagna ordinano cibo cinese da asporto nel loro confortevole appartamento di artisti. Al ragazzo straniero che consegna il cibo, Dafoe, impotente, offre del denaro, qualsiasi cosa desideri per queste ultime ore. La sua risposta è lapidaria: Skype. Accarezzare il volto di qualcuno attraverso la distanza.