Non è chiaro quanto quel “non so che” di sinistro che impregnava ogni decorazione, giostra e scenografia fosse voluto e quanto fosse frutto di un tentativo di tematizzazione mal riuscito. Fatto sta che se Gardaland era ben rappresentata dalla sua mascotte Prezzemolo e Disneyland era Mickey Mouse, il Luneur poteva essere tranquillamente il Clown malefico di IT .
[…] un ineguagliabile baraccone fatto di lucine scoordinate, di musica da discoteca a palla, di effetti di fumo che puzzavano come borotalco marcio, di altoparlanti distorti che richiamavano visitatori sulle attrazioni, di aromi di bombe (stra)fritte e di occasionali souvenir gastrici lasciati, negli angoli e tra le aiuole, dai guest più fragili. Parco divertimenti? Macchè, era la Los Angeles di Blade Runner.”
Da Tributo al vecchio Luneur e alle sue attrazioni storiche, di Carla Ferri, su www.theparks.it
A un certo punto della Bella Virginia Al Bagno, la madre della regista, filmata all’interno del suo tirassegno, chiama in causa l’ultimo episodio di Boccaccio ’70, (La Riffa, di Vittorio De Sica), per spiegare come il successo del film, del 1962, contribuì a cucire addosso alle donne che facevano parte del mondo dei giostrai il costume di femmina di malaffare. Tuttavia esiste un altro legame tra il documentario di Eleonora Marino e quell’episodio, più vicino al cinema e meno al costume, e lo cogliamo in una certa scena del film di De Sica.
Verso sera la bella Zoe, interpretata da Sophia Loren, è nascosta dietro al suo tirassegno e bacia appassionatamente l’aitante giovane che poche ore prima ha cacciato le corna di un toro lontano dalla sua preziosa giostra. Nel frattempo sull’altro lato del tirassegno i suoi ignari clienti – tra cui molti acquirenti del biglietto della famosa riffa che mette la bella Zoe in palio per una notte – continuano a sparare ai bersagli di palloncini.
De Sica ha qui messo fisicamente in scena la stessa promessa di felicità su cui il bisnonno di Eleonora Marino a inizio secolo ha costruito il suo primo numero da imbonitore, “La Bella Virginia Al Bagno”, che dà appunto il nome al film e che non possiamo ovviamente svelare. E’ La promessa di felicità che sta “dietro” a una giostra, dietro a un biglietto della lotteria, a un numero da circo, a dei palloncini da bucare o a un tirapugni da colpire. Come ci racconta Eleonora, è quella la promessa che si deve preservare se si vuole tenere in vita lo Spettacolo Viaggiante. Ma come si è trasformata e come è sopravvissuta, da un secolo fa a oggi, quella promessa?
Eleonora inizia la sua ricostruzione e il suo viaggio da una sorta di scatola dei ricordi, con l’attenzione e la cura per le piccole cose che sanno di Jeunet e Amélie: vecchie foto, articoli di giornale, un braccialetto lasciatole dal nonno e soprattutto una serie di frammenti di filmati girati in 16 mm, in cui il protagonista è il nonno Cesare e il suo numero a due di clown cascatori “Bill & Bill“.
Dal passato remoto, al presente e poi ancora indietro al tempo imperfetto. Il maggiore punto di forza del documentario è la libertà con cui la regista si muove avanti e indietro, nel tempo e nello spazio. Non è un raccontare anarchico, semmai caleidoscopico: gli stessi frammenti posizionati in modo sempre diverso e senza un ordine precostituito, diventano un’osservazione di belle forme. Così un documentario sullo Spettacolo Viaggiante diventa Spettacolo Viaggiante esso stesso. Eleonora viaggia grazie ai memorabilia scovati in soffitta, viaggia in camion accompagnando il padre, viaggia nelle parole della madre, e in quelle di zii e cugini. Ognuno di loro le permette di rivivere un ricordo di quando era piccola, di quando anche lei faceva parte di quel mondo, e allo stesso tempo ciascuno racconta a noi come quel mondo era e come è cambiato.
Ad esempio scopriamo come certi “dritti”, quelli che viaggiano, scelgono di trasformarsi in “gaggi”, cioè si stabiliscono in un posto, nel momento in cui la trasformazione del Luneur a Roma in lunapark stabile – a partire dal 1960 – permette a molte famiglie di giostrai di liberarsi della precarietà delle piazze. Così i bambini figli di quei giostrai possono restare nella stessa scuola tutto l’anno senza essere obbligati a cambiare decine di volte i compagni di classe. Tutto bene a questo punto? No, perché rinunciare alla precarietà del viaggio per alcuni vuol dire anche perdere quella certa elasticità e capacità, nate sulla strada, di ridisegnare i propri destini all’occorrenza.
Eleonora chiede alla madre cosa pensasse a vent’anni. Lei non risponde subito, e la videocamera viene lasciata lì, per qualche minuto, a girare. La madre è titubante, si aggrappa un paio di volte a un furbesco sguardo in macchina. Ma la videocamera è lì, gira e non si muove, e alla fine lei cede. Risponde che il suo pensiero era avere una casa vera. Subito dopo però ricorda cosa si è perso, insieme alla casa carrozza: la condivisione della vita di strada con chi conduceva la stessa esistenza, l’amicizia con la gente delle piazze, la libertà di vedere tutto il mondo che si riusciva a vedere – che forse è un po’ più preziosa della possibilità di seguire un anno di programmazione scolastica di geografia nella stessa scuola, ma è un pensiero di chi scrive.
C’è un senso in più, nascosto in questo documentario, che riesce ad essere a un tempo denso e leggero, spartano e sontuoso. E forse è così ben nascosto perché sta da un’altra parte. Lontano dallo schermo. Su un altro carrozzone. Ci sembra di scovarlo in un dialogo fra padre e figlia, che accompagna, sulla pagina facebook del film, una foto fatta durante un viaggio di tanto tempo prima, di cui vi riportiamo un pezzetto:
– E cos’è quella faccia?
– Sarebbe stato bello vincere. Avevamo voglia di festeggiare.
– Sì, ma se rosichi così, vuol dire che non hai capito nulla del film che avete fatto.
– In che senso?
– Nel senso che sei fai un film sullo spettacolo viaggiante, non è che poi ti fermi alla prima piazza.
– …
– Tuo nonno è andato fino in India a fare spettacoli, e tu ti vuoi fermare al Pigneto? Al Pigneto, capito: ma non ti vergogni?
– Ora che me lo fai notare, un poco.
– Carica la Virginia in macchina. Sbrigati! Il mondo è pieno di piazze che vogliono sentire la sua storia. E lei è nata per macinare chilometri.”
La Bella Virginia al bagno ha macinato un sacco di chilometri, prima e dopo essere diventata un film, per arrivare sino al Kinodromo. Guardatela, e se dopo averla vista vi troverete a pensare che quella promessa di felicità è stata esaudita, almeno un pochino, quando uscite dal tendone correte a dirlo agli amici che sono rimasti fuori. Funziona esattamente così, come un secolo fa.