Soy Cuba – Recensione a cura di Alberto Berardi

Home » Soy Cuba – Recensione a cura di Alberto Berardi
Soy Cuba – Recensione a cura di Alberto Berardi

SOY CUBA

La Caméflex Eclair era una cinepresa particolare, duttile e leggera. Nata nel 1947 e adorata in particolare dalla Novelle Vague, oltre che da chiunque fosse nel campo del documentario, fu il mezzo tecnico giusto al momento giusto, matita perfetta per ridisegnare i confini del linguaggio cinematografico nei quindici anni successivi. Non era solo una questione di peso: questo modello permetteva anche un cambio pellicola in corsa, senza interrompere la ripresa.

Anche se lo sbarco a Cuba dello squadrone capeggiato da Mikhail Kalatozov non avvenne in punta di piedi, il team si prese un certo tempo per conoscere ed esplorare l’isola. Lo spirito era, in parte, vicino a quello del cinema documentario: si voleva entrare nell’anima dell’isola, e per fare ciò durante la preproduzione Kalatazov e il suo direttore della fotografia Sergei Urusevtskij si fecero accompagnare da guide ed esperti nei luoghi più importanti del paese. L’immersione però era un procedimento che i russi praticavano a modo loro, se è vero che, come ci racconta il solido Soy Cuba – Il Mammuth Siberiano di Vicente Perrez, molte strade furono visitate dal regista senza scendere dalla propria auto. Immersione sì, quindi, ma controllata. A freddo, verrebbe da pensare, come il bagno ghiacciato della tradizione ortodossa.

Già in questa fase la leggerezza calda della vita ai tropici fresca di rivoluzione – dopotutto erano passati solo tre anni -, si scontrava con la pesantezza fredda della sovrastruttura ideologica sovietica. La tèchne di Urusevtskij si trovò di fatto a raccordare le due spinte: fu proprio il mezzo cinematografico fisico, la Caméflex Eclair, ad essere spremuta fino in fondo assumendo il ruolo di chiave di volta.

Gli elementi d’immediatezza di cui era dotata la Caméflex dovevano essere temperati da altri che ne permettessero il controllo chirurgico. Ecco la scelta della lente, l’obiettivo da 9.8 mm, quasi un fisheye moderno, che riusciva a mantenere sempre tutto all’interno del campo dell’inquadratura grazie alla sua natura grandangolare, e soprattutto a mantenere ogni elemento sempre a fuoco, che fosse un volto in primo piano o uno sfondo.  In questo modo, tolta la possibilità di isolare un elemento con la messa a fuoco, a Urusevsky restava solo la possibilità di avvicinarsi o allontanarsi fisicamente, camera in spalla, agli elementi della messa in scena.

Per costruire profondità e alternanza, proprio come avviene oggi quando si utilizza una GoPro durante una ripresa sportiva, una parte del gioco consiste nel fissare il mezzo ai supporti più disparati, creando punti di vista inediti. Anche in quest’ottica vanno apprezzati i movimenti di macchina estremi che hanno reso famoso il film, dove al posto dei dolly e steadycam che avrebbero caratterizzato il cinema mondiale prossimo venturo Urusevsky sostituì un insieme di funi e carrucole, attaccate a una cinepresa leggera dotata di un’ottica panfocale.

L’altro elemento è dato dalla coreografia della messa in scena, dal movimento che avviene davanti all’occhio meccanico: se per le action cam moderne questo è fornito d’ufficio dalla dinamicità dell’azione sportiva, in Soy Cuba è prodotto dal controllo orchestrale dei movimenti di una folla umana. Qui non c’erano limiti di budget, se si considera che Kalatosov poteva permettersi, vicino alla crisi missilistica cubana, di chiedere e ottenere dal governo 5000 soldati per girare una certa scena a un capo dell’isola, lasciando sguarnito momentaneamente tutto il resto del territorio.

Uno degli elementi che ci affascina maggiormente quindi, in questa creatura cinematografica che non assomiglia a nulla di quello che venne prima o che seguirà dopo, è l’equilibrio dinamico tra le parti che lo costituiscono, la tensione continua tra lo spirito libero ed esplorativo da un lato, comune all’estetica rivoluzionaria, e quello del controllo, del didascalico, del celebrativo, al servizio di un ideologia politica ben determinata. Anche per questo motivo Soy Cuba attira e respinge lo spettatore di oggi, oltre agli elementi più noti: i propri bellissimi piani-sequenza, il passo lento, la fotografia in un bianco e nero estremo, dove i cieli sono scuri e le canne da zucchero diventano quasi bianch.

 

Alberto Berardi