MADE IN IRELAND di Gianluca Pulsoni

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Conosco Maximilian Le Cain grazie a quel gran gruppo di persone che dal 2006 ha messo su – praticamente dal niente – il Lucca Film Festival.

L’ho incontrato lì per la prima volta, qualche anno fa.
Ma da quel momento in poi ci siamo sempre tenuti in contatto, siamo diventati amici e lo siamo tutt’ora.

max le cainOra, come introdurlo? Ci si prova in poche parole.
Irlandese, classe 1978, Le Cain è uomo-cinema a 360°, nel senso che è un (apprezzato) critico cinematografico e programmatore da anni (in Irlanda e altrove) ma, anche, un filmmaker infaticabile e inclassificabile il cui lavoro – alla fine, per comodità – potrebbe essere etichettato come cinema sperimentale (ma dentro un certo tipo di immaginario dove, che so, Michelangelo Antonioni incontra Jean Rollin e i due non si scazzottano, anzi: dove forse Antonioni dovrebbe cedere il passo all’altro, in segno di rispetto e ammirazione).

Tra le cose che devo a Max una è sicuramente l’avermi reso interessato a quanto sta compiendo nel suo Paese – lui, per ora, è sempre di base a Cork – assieme a un gruppo di persone fra cui l’iraniano Rouzbeh Rashidi (classe 1980) e l’irlandese Dean Kavanagh (classe 1989) – entrambi filmmaker – e, diciamo per semplificare, intorno all’Experimental Film Society (sigla di riferimento, EFS), organizzazione no profit ideata dallo stesso Rashidi (fondata a Tehran nel 2000, poi di base a Dublino – dove Rashidi attualmente vive – a partire dal 2004). Come si legge dal sito: «It unites works by a dozen filmmakers scattered across the globe, whose films are distinguished by an uncompromising devotion to personal, experimental cinema» (alla fine però sono soprattutto di quella che si direbbe la new wave del cinema sperimentale irlandese e dell’emergente cinema underground iraniano, come si legge sempre dal sito).
È una organizzazione quindi dedita alle azioni di archiviare e promuovere un certo cinema.

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Grazie a Max ho di conseguenza cominciato a conoscere i film di Rashidi e di Kavanagh, i loro mondi. Vorrei qui soffermarmi brevemente su certe caratteristiche del lavoro di entrambi, lavoro le cui rispettive immagini mostrano indubbiamente mondi diversi, eppure similitudini nei metodi (per esempio: budget minimi o assenti; collaborazioni continue tra loro; ambito cinema sperimentale, sempre con le dovute “pinze”), ma – anche – nelle finalità (per esempio: la sospensione della narrazione, intesa come verità e senso della visione).

rouzbeh rashidiPer introdurre – in breve e con un certo “segno”– il cinema di Rouzbeh Rashidi, con un occhio (soprattutto) a chi non è abituale spettatore di certe cose, non mi viene in mente altra via se non quella di optare per un elenco di determinate parole: strutturato; decorativo; spiazzante; violento; ironico.
Provo a spiegarmi ma con un inciso, e cioè che le parole, qui, valgono per una descrizione, quindi nessun giudizio critico – quello è bene che ognuno se lo faccia da solo.
È un cinema strutturato il suo – non strutturale! – perché usa, spessissimo, moduli e forme visive rigide dentro cui sviluppa e ingabbia le proprie immagini; decorativo – invece – in un senso squisitamente formale, come sinonimo di arte ornamentale (in fondo, una delle più genuine delle arti popolari nella storia umana); spiazzante al contrario perché negli esiti, in quanto conseguenza coerente di una imprevedibilità degli sviluppi dei propri film; violento perché non presuppone mediazioni soft in ciò che prospetta allo sguardo; ironico per i tanti cortocircuiti di senso che viene a creare, o che si vengono autonomamente a creare.

dean kavanaghA differenza di Rashidi, Dean Kavanagh sembra quello invece più incline al lirismo, quello – forse – più riconoscibile e inquadrabile dentro un certo trend (dove questo, però, non vuol dire sminuire la qualità di quello che fa – sia chiaro).
Il suo è uno sguardo molto poco centrale, o anzi: molto poco centrato, a differenza di quello di Rashidi. È spesso incline a cercare una fluidità di un gesto, un senso atmosferico del momento, una certa imprevedibilità: come condizioni – alla fine, in qualche modo – estatiche.
Inoltre, si potrebbe dire che nel suo modo di procedere – film dopo film – si ponga il problema di affinare il proprio stile per meglio incontrare, oppure per meglio scontrarsi, con quanto vuol catturare visivamente e sonoramente. A mio modo di vedere, (quasi) il contrario dell’altro.
Figurativamente parlando, lo si potrebbe definire un ritrattista, ha ragione Max Le Cain al riguardo. Fin dai suoi primi corti. La centralità del corpo, dunque, come dato prima di tutto.
A questo però va aggiunto un altro tema: la memoria.
Ma a questo proposito non posso non citare, ancora, Le Cain. E chiudere così questo testo: «Memory seems to be the essence of his cinema, or, more specifically, the flimsiness of the divide between the intensity of the impression of a given moment and its memory, with the mechanics of image-making providing the solution in which these two states are dissolved.»

SERATA di cinema sperimentale irlandese, a cura dell’Experimental Film Society > Lunedì 16 marzo 2015 a Kinodromo