La tenerezza brutale delle fotografie di Hugo Weber

La tenerezza brutale delle fotografie di Hugo Weber

Nel Diario del ladro Jean Genet comincia la sua narrazione paragonando i fiori e gli ergastolani, affermando che la natura di fondo di entrambi, tramutata in delicatezza nei primi e brutalità nei secondi, fosse la stessa. “Ch’io abbia da raffigurare un forzato – o un criminale – sempre lo coprirò di tanti e tanti fiori ch’esso, scomparendovi sotto, ne diventerà un altro gigantesco, nuovo”. Guardando le foto di Hugo Weber si prova qualcosa di simile, anche se i suoi soggetti prediletti non sono ergastolani, ma piuttosto abitanti dei margini, che siano questi la periferia di via Boifava a Milano o una bidonville fuori Parigi. Cresciuto a Milano, classe ’93, Hugo è un talento grezzo che sa sfruttare con intelligenza il proprio istinto, e il risultato sono  immagini in cui la forza aggressiva si bilancia sempre con una delicatezza inaspettata e dirompente, come se lui stesso spargesse fiori in luoghi desolati. Appassionato di Nan Goldin, con cui ha smesso di paragonarsi tempo fa scoprendo che il mondo della fotografia in fondo è orizzontale, Hugo pone l’attenzione su ciò che normalmente lo sguardo rifugge, e non gli importa se sia bello oppure no. Un’attenzione maniacale lo distingue nel curare libri e fanzine, che riproduce artigianalmente prima ancora della versione definitiva incollando fotografie, testi, lingue trasparenti e colorate che compongono un vero e proprio oggetto del desiderio. 5341 è il suo primo libro, realizzato insieme all’amico fotografo Denny Mollica, ma sta lavorando al prossimo. Ho fatto due chiacchiere con lui sull’evoluzione del suo lavoro, sul rapporto tra fotografia e vita e sul suo ultimo progetto che segue ormai da due anni.

Tu sei cresciuto a Milano e nasci come writer, come hai iniziato a fare foto?

Per caso in realtà, anzi ti dirò, la fotografia mi stava sul cazzo all’inizio perché mia madre è fotografa, la vedevo come una cosa sua e non mi piaceva. Poi in terza superiore andavo all’Istituto Kandinsky di Milano, che era in un postaccio, vicino a dove ho fatto il mio primo libro 5341, dove andava chi voleva prendere il diploma e basta. Io e alcune persone, invece, eravamo veramente interessati, e un professore, l’ultimo anno che si faceva la pellicola a scuola, mi ha fatto provare lo sviluppo e mi ha lasciato una macchina fotografica convinto che mi sarebbe piaciuto. Da lì in poi non ho più smesso.

Per contrasto quindi non avresti voluto seguire questa strada?

Ma no, in realtà tuttora considero la fotografia la parte più fighettona del lavoro. Mi interessa molto di più tutto quello che sta dietro: il lavoro di editing, di ricerca del contatto, di creazione della storia, di entrata in intimità. Alla fine il gesto in sé di fotografare per me non vale molto.

Hai iniziato fotografando quello che avevi intorno, la periferia di Milano. Continui a ritrarre le persone della tua vita?

Non ho mai smesso, ora è diventato un lavoro ma continuo a farlo. Per me la fotografia è più una scusa per vivere altre vite, vedere altre cose, quello che mi interessa di più è vivere la situazione.

È anche una sorta di lasciapassare forse?

Più che per le situazioni che fotografo, per tutto ciò che è all’esterno: penso che non si capirebbe altrimenti cosa sto facendo. Se vivi con dei tossici in una bidonville a Parigi, o sei un tossico o sei un fotogiornalista, capisci.

Come vedi l’interesse di pubblico rispetto a tutto ciò che è underground? Cosa ti infastidisce di più di questa moda estetica?

Non mi piace la gente in generale, e ancora di meno quelli che fanno le cose per moda, ma se è una farsa dura poco. Poi ognuno fa ciò che vuole, la moda esiste e va bene così. Prima ero tanto arrabbiato, a volte geloso degli altri, adesso non mi interessa più tanto, sento di aver trovato la mia dimensione. Poi voglio un po’ dissociarmi da questo filone, non voglio diventare la caricatura di me stesso e fare qualcosa solo perché è quello che ci si aspetta da me. Se c’è qualcuno che strumentalizza quell’estetica per moda non mi interessa, finché tutti sono contenti va bene tutto.

Dai primi lavori fino agli ultimi progetti il tuo stile resta sempre molto riconoscibile ma si sta evolvendo, cosa senti che è cambiato nel corso di questa maturazione artistica?

Il metodo sicuramente, io ho un grosso problema di disturbo dell’attenzione e sono iperattivo. Sono stato assistente di un fotografo di Cesura, Alex Majoli, per un anno. Al di là delle competenze tecniche, mi è servito a capire che non c’è bisogno di snaturare le proprie cose per riuscire, ma piuttosto fare delle proprie cose qualcosa di istituzionalizzato. Quindi continuo a fare quello che voglio, ma trovandogli un supporto e una legittimazione attraverso la storia, la fanzine e l’oggetto libro che a me piace tantissimo, che serve per dare una coerenza autoriale. Elevare significa per me trasformare le mie foto, che sono puro istinto, in veri e propri progetti attraverso il metodo, il rigore. Però sicuramente non voglio cambiare niente del mio stile.

I progetti fotografici richiedono tempo, eppure viviamo un rapporto bulimico con le immagini, nel consumo e nella produzione. Come affronti questa velocità?

Questo è un ragionamento da mercato che non mi interessa, io voglio fare progetti belli. Ora sono due anni che sto lavorando al mio ultimo progetto. Come consuma le immagini la gente non mi interessa. Io produco libri, oggetti, voglio perdurare, superare il lato effimero della fotografia. Il libro è la forma perfetta per farlo.

Il progetto di cui parli di che tratta?

Si chiama Monika la bohémienne des Gravats, «gravats» in francese vuol dire macerie. È una pittrice transessuale junkie che ha costruito una bidonville a Aubervilliers, fuori Parigi. Vive insieme ad altri artisti in baracche costruite con pallet, pezzi di teatro, pezzi di caravan. Ho vinto un premio ad aprile 2019, a maggio dello stesso anno usciva il mio primo libro 5341. Sono andato a Parigi e ho fatto vedere il libro a un amico writer, che mi ha raccontato di questa comunità di squatter che avevano occupato un terreno, dicendomi che avrei potuto farci un progetto. E aveva ragione. In quel periodo mi erano entrati i soldi del premio e un po’ anche del libro, quindi ho pensato: che faccio, aspetto quei due, tre lavoretti al mese da assistente che ho qui o mollo tutto e vado a scattare Monika? Alla fine sono andato a scattare Monika.

Come hai costruito il rapporto di fiducia con lei?

Se vivi lì e dormi lì, è quasi inevitabile. Però poi si costruisce in maniera naturale, se non c’è feeling non va. Posso anche ricreare in maniera estetica questa cosa finta, ma poi a lungo andare non funziona. Ad esempio, avevo in mente di fare un progetto per seguire il movimento della trap a Milano visto attraverso gli occhi di artisti romani che vengono in città, ma non faceva per me. Nonostante siano stati disponibili e molto carini, a livello logistico era difficile e avrebbe richiesto un tempo e una dedizione che forse il contenuto non meritava. Ci vuole affinità.

Lippodrome invece com’è andata?

Io sono molto testardo, e sono partito con l’idea di far vedere che posso fare cose diverse, per questo ho iniziato il progetto. Avevo vinto un premio al festival Planches Contact 2020, la residenza Tremplin Jeunes Talents, per cui devi raccontare un progetto sul territorio. Io ho vinto a marzo 2020, se fai due conti non il momento migliore, e nonostante mi avessero dato la possibilità di cambiare tema io volevo fare una cosa un po’ diversa. In tutto ho fatto quattro settimane di residenza, un tempo non adeguato, e anche per questo lo sento molto meno forte di altri.

Chi ti ispira?

Sono cresciuto con i libri della Magnum che per me erano il massimo, poi ho avuto la fortuna di lavorare con un fotografo della Magnum e ho capito che certe cose erano fattibili, che bisogna farle in un certo modo, avere testa, investire molto tempo a perdere.

Nan Goldin per me è dio, mi paragonano a lei e mi sta sul cazzo questa cosa (ndr D di Repubblica lo ha definito “il Nan Goldin di Parigi e Milano“). Però a un certo punto ho capito che non ha senso cercare un criterio estetico da copiare, perché non mi serve, piuttosto cerco di impegnarmi a seguirne la metodologia, la dedizione, l’essere intelligenti nel fare le proprie scelte. Cerco di guardare alle cose che non potrebbero portare un pregiudizio nel mio lavoro, quindi applicate a tutto ciò che non è scattare, per mantenere la libertà di scattare come voglio. Ho tante persone che mi ispirano belle cose, ma ho demistificato questa cosa della fotografia, alla fine si tratta di un mondo orizzontale.

È un lavoro solitario il tuo o hai una rete di persone con cui ti confronti?

Sono molto sociale, lavoro con i fotografi e mi piace lo scambio, anche perché la fotografia, seppure meno del cinema, è un lavoro collettivo. Dal momento in cui scatto, la creazione della sequenza o del supporto viene da come le persone percepiscono il tuo lavoro, c’è sempre la necessità di fare letture portfolio. Spesso cerco i feedback di editor o di altri fotografi, perché il tuo lavoro passa attraverso lo sguardo degli altri, ed è utile soprattutto per capire le cose che non funzionano. Trovare una via di mezzo per non snaturare il tuo lavoro e allo stesso tempo renderlo il più comprensibile possibile, facendo anche dei passi indietro se serve. È importantissimo per me lo scambio, la fotografia unisce tutti, anche persone con cui altrimenti non avresti niente in comune.

Hai un modo di rappresentare i tuoi soggetti in cui la rabbia e la delicatezza coesistono, e le tue immagini suggeriscono sempre una certa intimità con chi ritrai.

Il lavoro che faccio con le persone che non conosco è di cercare di ricreare quell’intimità. La fotografia è la mia vita, di 5341 mi sono fatto un tatuaggio, i soggetti che vivo diventano proprio importanti per me. Ora faccio le foto perché ne ho bisogno. Ho fatto un lavoro di merda per dieci anni e non voglio farlo più. Il progetto fotografico struttura e legittima la mia vita nella società, se di tutte le mattine che mi sveglio devo vendere il mio tempo per quella cosa ha senso, altrimenti no. È una cosa viscerale, se succede qualcosa devo fotografarla.

Quando senti che un progetto è arrivato al punto in cui volevi che fosse?

Quando esce il libro. Per il resto lo senti, ad esempio ci sono ancora una, due foto forse che so di voler fare ancora di Monika, ma quando vedi una pittrice transessuale che sale su una scala di otto metri lo sai che stai facendo una foto giusta. Dopo un po’ che sei immerso nella stessa situazione inizi anche a girarci intorno, hai scavato e continui a fare le stesse cose a loop, a seconda anche del tempo che ci impieghi dietro. Però il progetto non è finito per me finché non esce il libro.

Ci sono stati momenti in cui ti sei trovato a doverti fermare e rivalutare il tuo lavoro proprio per questa labile separazione tra vita e arte?

Adesso mi sento di dire che sto facendo bene, ho una direzione. Sembro per aria, soprattutto per quel fottuto personaggio che sono, ma sono anche tanto altro, so di poter lavorare dieci ore di fila se è necessario, e rifletto sul mio percorso. Se non ci fosse una riflessione dietro sarebbe problematico.

Per il futuro?

Sto lavorando al libro di Monika e non riesco a seguire più di un progetto così grande insieme, se passassi ad altro Monika diventerebbe meno importante e non posso.

 

Carlotta Centonze

 

Il profilo IG di Hugo: @hugoweber