Funeralopolis – A Suburban Portarit – recensione a cura di Giulia Silano

Home » Funeralopolis – A Suburban Portarit – recensione a cura di Giulia Silano
Funeralopolis – A Suburban Portarit – recensione a cura di Giulia Silano

 

Funeralopolis – A Suburban Portrait

Cioè, è una cosa seria, è un documentario su di noi. Io non faccio il cabarettista, capisci? (Vash)

Lorenzo Passera e Andrea Piva sono due ragazzi cresciuti a Bresso, nella provincia milanese. Vash e Felce si fanno chiamare, come i loro alter ego sul palco, sullo schermo e nei boschi di Rogoredo. Questi sono i luoghi di evasione che esploriamo insieme a loro mentre sfuggono dal grigiore urbano: punti di riferimento per la musica underground, case occupate, aree di spaccio, di microcriminalità e vandalismo.I protagonisti di questo documentario d’osservazione emergono nella loro ambiguità, collocabile nel sottile confine tra la persona e il personaggio. Se all’inizio possono sembrare caratteri riferiti a un immaginario provocatorio imitato, con il procedere del film traspare anche il passato personale che si portano sulle spalle.
Vash, nel presentare se stesso al mondo, si riferisce spesso all’immaginario cinematografico, con citazioni di “film improbabili” (Maniac, La casa, Battle Royale, Taxi Driver, L’odio, La montagna sacra, Gola Profonda) che lasciano trasparire i crudi e allucinati frammenti del proprio mondo interiore. Interiorità che trova riscontro nella brutalità della vita da tossico, sbattuta sullo schermo, ma mai in modo compiaciuto.

I flash cut dei raptus di autolesionismo, i particolari del sangue che esce dalle vene martoriate e il sonoro dei conati di vomito non vengono estetizzati, bensì mostrati nella loro verità. Come dichiarato dai realizzatori, il bianco e nero ha la stessa funzione che ha in Psycho di Hitchcock: “riduce il compiacimento nel mostrare il sangue delle ferite provocate dalla droga, creando distacco”. Questa scelta stilistica è giustificata con consapevolezza, ma nasconde anche una comprensibile povertà dell’immagine dovuta alla limitatezza dei mezzi e alla troupe ridotta (Radaelli, Melis e Fagone si sono occupati in autonomia della maggior parte dei ruoli). Eppure i bianchi bruciati e il basso contrasto non distraggono mai dalla potenza del contenuto delle inquadrature. Non importa se la scena ambientata nel bosco è girata con lo smartphone perché l’esperienza del primo piano in formato quadrato di Pez che si spara l’eroina direttamente nelle vene del collo assume un’intensità che non può non colpire emotivamente e fisicamente lo spettatore.
La realtà drammatica di questo “attaccamento malato col mondo” è sorprendentemente punteggiata da sprazzi di umorismo, amplificati dall’effetto sorpresa che si crea nel ritrovarli in un documentario con tale contenuto e ambientazione. “È occupato!” urlano in coro Vash e Felce quando qualche ignaro passeggero bussa alla porta del bagno mentre usano tutta la loro concentrazione e precisione per farsi le pere sul treno regionale barcollante. L’attitudine giullaresca di Vash, insieme alle scelte di montaggio che la esasperano, dà un tono tragicomico ai frammenti di vita mostrati, come l’appuntamento romantico con la sua ragazza (“Andiamo al Cimitero Monumentale. Facciamo sesso anale”), i consigli gastronomici chiesti direttamente ai Carabinieri (“C’è un McDonald qua vicino?”) o i travestimenti improvvisati (“Guarda, sono un unicorno!”, urla in macchina mentre si mette la siringa di eroina dritta in fronte).
Questa indagine dai tratti antropologici fa entrare dentro la vita di questi ragazzi calibrando sapientemente la tensione tra intimità e distacco: prive di spettacolarità alla Trainspotting o di patetismo da pubblicità progresso, le scelte di regia avvicinano lo spettatore al punto di vista dei protagonisti. La macchina da presa segue sempre le loro azioni rivelando la sensazione di attesa della morte che si cela dietro questa danza macabra di periferia.
Se Vash ha con il mezzo cinematografico un rapporto istrionico, definendo se stesso con una teatralità consapevole del pubblico che ricambia lo sguardo in macchina, Felce lo vede come un’occasione per confessare se stesso in tutta la sua introspezione emotiva e primordialità animale.
Nello spazio claustrofobico del fotogramma-confessionale ascoltiamo quali sono le loro radici, i loro interessi, la loro visione del mondo, ciò che li ha portati a diventare amici e ad aggrapparsi l’uno all’altro in un mondo che li ha emarginati sin dall’infanzia.
In questa giungla urbana “il circolo vizioso della vita è che te le danno e tu le dai a qualcun altro” mentre il rancore cresce fino a diventare un odio tossico. Alla fine in questa solitudine esistenziale e attesa della morte “l’importante è avere la droga perché le persone fanno cagare. Meglio rimanere soli con la droga.”

 

Giulia Silano